Il 17 gennaio l’emittente televisiva N1 ha riportato la notizia della sopraggiunta morte, all’età di 79 anni, dell’ex Generale JNA Vladimir Trifunovic, presso l’Accademia Medica Militare di Belgrado.
La notizia ha fornito l’occasione per ricordare la storia di Trifunovic, e offrire qualche spunto di riflessione su guerra e giustizia, destino e coraggio, passato e presente in Serbia. Pubblichiamo di seguito il racconto che ne fa Dejan Anastasijevic per Balkan Insight, accostando il suo destino a quello di un altro, differentemente celebre, soldato, Veselin Sljivancanin.
Si dice che i vecchi soldati non muoiono mai, semplicemente svaniscono.
Questo non è del tutto vero: i vecchi soldati prima svaniscono, e poi muoiono, come tutti gli altri.
Prendete il Generale Vladimir Trifunovic dell’Esercito Popolare Jugoslavo, JNA, uno dei pochi veri eroi delle guerre jugoslave, che morì, solo e dimenticato, all’età di 79 anni, in un ospedale militare a Belgrado, dopo aver trascorso i suoi ultimi anni in una piccola stanza di un fatiscente albergo per ufficiali in pensione.
Nel settembre 1991, agli albori della disgregazione della Jugoslavia, Trifunovic comandava una grande presidio a Varazdin, città barocca nel nord-ovest della Croazia. Quando la Croazia dichiarò l’indipendenza dalla Jugoslavia, la base venne circondata, l’elettricità e l’acqua interrotte e le forze croate iniziarono a fare fuoco sui suoi soldati. La moglie e i figli vennero presi come ostaggi.
Trifunovic chiese rinforzi al quartier generale JNA a Belgrado, a quasi 500 chilometri di distanza. Ma i rinforzi non arrivarono mai. Gli fu ordinato, piuttosto, di tenere la base a qualsiasi prezzo. Il generale disponeva di carri armati e obici con cui avrebbe potuto rompere l’assedio, ma era a corto di carburante.
Era consapevole che non sarebbe andato molto lontano.
Il quartier generale gli ordinò di bombardare la città, o utilizzare l’artiglieria per far saltare una diga nelle vicinanze e inondare l’intera area; ma Trifunovic oppose il suo rifiuto. Molti soldati, la maggior parte 19enni di leva provenienti da diverse parti della ex Jugoslavia, fuggirono; ed egli non li fermò. Alla fine, ne erano rimasti solo 280. “Questi ragazzi provenivano da famiglie povere, senza soldi o collegamenti per uscire dai guai”, rivelò più tardi. “Non potevo lasciarli morire lì, in una guerra inutile”.
Dopo aver sopportato l’assedio per quasi un mese, il generale diede l’ordine ai suoi soldati di abbandonare i carri armati e l’artiglieria e raggiunse un accordo con i croati: la base in cambio di un passaggio sicuro per sé e per i suoi soldati. Rientrato in Serbia, il Generale venne arrestato e processato per alto tradimento. Trifunovic trascorse 11 anni di carcere, costantemente oggetto di molestie e abusi sia da parte degli altri detenuti che delle guardie. Alla fine, la sentenza di Trifunovic fu commutata, e nel 2010 egli venne completamente riabilitato.
Ma, a quel punto, era un uomo distrutto: la sua famiglia lo aveva abbandonato e molti dei suoi compagni non gli perdonarono mai il rifiuto di morire in un tripudio di gloria insieme con i suoi soldati e con chissà quanti civili innocenti. Visse gli ultimi anni confinato in una stanza d’albergo non molto più grande di quella che era stata la sua cella, dove si lavava da solo i vestiti e cucinava i suoi pasti su una stufa a gas.
E ora la storia di un altro soldato, è molto vivo, e niente affatto sbiadito.
Mentre Trifunovic si trovava a Varazdin, il Maggiore Veselin Sljivancanin era responsabile della Guardia JNA, un’unità connessa al quartier generale di Belgrado.
Nell’autunno del 1991, Sljivancanin e la sua unità fuorno inviati a Vukovar, città della Croazia orientale in prossimità del confine con la Serbia. Alla fine di novembre, dopo tre mesi di costanti bombardamenti, Vukovar cadde nelle mani delle forze combinate JNA e paramilitari serbe.
La città fu rasa al suolo ed in seguito molti dei sopravvissuti vennero uccisi da bande paramilitari liberamente organizzate. Sljivancanin non alzò un dito per fermare i massacri. Invece, si macchiò di qualcosa di ancora peggiore: i suoi soldati prelevarono 260 pazienti dall’ospedale di Vukovar e li trasferirono in un campo di prigionia improvvisato nell’azienda zootecnica di Ovcara, appena fuori città, gestita da paramilitari. Torturati e infine uccisi, i loro corpi vennero sepolti tra le ossa di animali presso l’azienda agricola.
Al suo ritorno a Belgrado, Sljivancanin ricevette un’accoglienza molto diversa da quella riservata a Trifunovic. Celebrato dai media patriottici come “Il Cavaliere di Vukovar”, comparve come ospite frequente nei talk show televisivi ed è stato spesso visto in ristoranti eleganti mangiare e bere in compagnia dell’elite di Slobodan Milosevic.
E’ stato decorato e promosso due volte.
Quando venne finalmente incriminato dal Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, era già colonnello.
Sotto forti pressioni da parte della comunità internazionale, Sljivancanin è stato arrestato nel 2003 e trasferito a L’Aia, dove è stato messo sotto processo per la strage di Ovcara. In un primo momento è stato condannato a cinque anni, poi a 17, e nel verdetto finale nel 2010, la pena fu stabilita a 10 anni. Dal momento che aveva già trascorso due terzi della pena in stato di detenzione, venne immediatamente rilasciato, e ancora una volta accolto come un eroe.
Sljivancanin ha mantenuto un profilo basso fino allo scorso anno, quando si è unito al Partito Progressista Serbo, SNS, guidato dal Primo Ministro Aleksandar Vucic, il quale ha intravisto l’opportunità di conquistare qualche voto facendo leva sulla vecchia gloria del colonnello.
Un giorno dopo la morte Trifunovic, Sljivancanin stava partecipando ad un raduno SNS a Beska, piccola città nel nord della Serbia. Quando un gruppo di attivisti per la pace, proveniente da Belgrado, ha inscenato una protesta e ha tentato di interrompere la manifestazione, sono intervenuti “teppisti” del SNS; una ragazza è stata presa a calci mentre giaceva a terra.
Sljivancanin assisteva alla scena seduto, sorridendo.
Proprio come aveva fatto probabilmente dopo aver consegnato i pazienti di Vukovar alla fattoria Ovcara. Gli attivisti per la pace, che appartengono al gruppo denominato Youth Iniziative for Human Rights, dovranno ora probabilmente rispondere delle accuse di teppismo.
280. Il numero di vite che Trifunovic salvò.
Un numero molto vicino a 261, quello delle vite cui Sljivancanin contribuì a porre fine.
Entrambi scontarono una pena, ma solo uno era colpevole. Il divergente destino dei due vecchi soldati è ciò di cui si ha bisogno per conoscere lo stato passato, e presente, della Serbia.
http://www.balkaninsight.com/en/blog/a-tale-of-two-soldiers-01-19-2017#sthash.DENNbSIT.dpuf