Rifugiati in Serbia: la scelta di Safaa

Quasi un milione di migranti ha attraversato la Serbia al culmine della crisi europea dei rifugiati. Quasi nessuno voleva restare. Ma Safaa Alobaidi ha una storia molto diversa. È arrivato dieci anni fa e non vuole andarsene.

“È un po’ complicato”, racconta Safaa mentre entra nella sua stanza. “Disordinato” è un eufemismo: vestiti, piatti sporchi e cavi aggrovigliati sono sparsi dappertutto. Ma le immagini sui muri e alcuni fiori rivelano che questa non è una sistemazione temporanea. Per Safaa Alobaidi, un rifugiato dall’Iraq, questo caos domestico è l’unica casa.

Come residente veterano del Centro per richiedenti asilo a Banja Koviljaca, una città termale nella Serbia occidentale, il sessantenne Safaa non condivide una stanza con altri migranti nell’edificio principale. Vive invece in un piccolo monolocale in una casa separata. Nel 2008 Safaa ha ottenuto una “protezione sussidiaria temporanea” nel paese dei Balcani, il che significa che non ha ricevuto un rifugio completo, ma che non è stato possibile rimandarlo a casa. Nel suo caso, “temporaneo” è durato per quasi un decennio.

“Baghdad è stata completamente distrutta, chiunque per strada aveva una mitragliatrice, i veicoli militari erano ovunque”, dice, ricordando il periodo di occupazione dopo la caduta di Saddam Hussein. “Stavano uccidendo a loro piacimento. Tutti i giorni”.

Safaai ha conseguito due titoli accademici all’università. Nel complesso, ha avuto una vita migliore della maggior parte degli altri in Iraq. Eppure temeva per sua moglie e suo figlio. E per se stesso. Quando un caro amico fu ucciso a Baghdad, decise semplicemente di andarsene. “Non mi importava se fosse per la Serbia, l’Italia, la Germania o la Libia … Volevo solo vedere la mia famiglia al sicuro”.

L’idea iniziale era per lui di stabilire una vita da qualche parte in modo che la sua famiglia potesse seguirlo. Non è mai successo. Prima era una questione di burocrazia, quindi di mancanza di denaro. Alla fine, la moglie di Safaa, stanca di aspettare, ha interrotto i contatti.

“È colpa mia, perché non potevo aiutarli”, riflette Safaa lentamente mentre scaccia le lacrime. Per un momento sembra un uomo devastato, con la coscienza sporca. “Ho visto mio figlio due volte per alcuni minuti in una chat video, ma non potevo parlare… cosa c’era da dire?”

La storia di Safaa è insolita. Prima del grande afflusso di rifugiati del 2015, la Serbia ha avuto solo una dozzina di rifugiati riconosciuti sul registro, senza contare le centinaia di migliaia di serbi che sono fuggiti da Croazia, Bosnia e Kosovo durante le guerre jugoslave nel 1990.

Secondo la Commissione europea, quasi un milione di migranti ha attraversato la Serbia sulla cosiddetta rotta balcanica dall’inizio del 2015 alla fine di marzo 2016. Ma in realtà solo poche decine avevano intenzione di rimanere. La Serbia sta lottando con alti tassi di disoccupazione e salari estremamente bassi. Solo nell’ultimo anno, circa 40.000 serbi hanno deciso di lasciare il paese alla ricerca di opportunità migliori altrove.

A differenza di Safaa, altri migranti vogliono andarsene il più rapidamente possibile. Spesso pagano i trafficanti o cercano di attraversare il confine dell’UE da soli.
“Dico loro che devono usare il loro tempo in Serbia per imparare qualcosa sulla vita, sul rispetto”, dichiara Safaa. Parlando un inglese stentato, Safaa spesso inserisce nelle sue frasi una parola serba quando dimentica la corrispondente inglese. “Se vuoi andare, arrivederci! Ma non dimenticare la Serbia! La Serbia è piccola, ma ha un cuore grande”, aggiunge Safaa, mentre lavora a una macchina da cucire in un piccolo laboratorio.

Il Centro per richiedenti asilo a Banja Koviljaca fu fondato mezzo secolo fa, il primo del suo genere in quella che allora era la Jugoslavia socialista. È una costruzione solida, posta in cima ad una collina sopra la città e circondata da boschi, ed ora ospita circa cento persone, per lo più famiglie.

Negli anni ’70 e ’80 ha protetto i rifugiati dal blocco orientale e persino alcuni cileni dopo il colpo di stato militare del 1973. Ora la maggior parte della gente è afgana o yazida dall’Iraq. Per molti di loro, la Serbia appare come un vicolo cieco nel loro viaggio verso l’Europa occidentale; i paesi vicini hanno chiuso i loro confini e li controllano rigidamente.

“Tutte queste persone erano alla ricerca di una vita migliore”, afferma Robert Lestmajster, Direttore del Centro, che ha lavorato per tre decenni per le autorità serbe. “Alcuni di loro erano solo migranti economici provenienti da aree sottosviluppate dei loro paesi, alcuni stavano davvero sfuggendo alle atrocità di guerra”.

“Safaa è impegnato nel lavoro quotidiano qui”, aggiunge Lestmayer con un sorriso sul volto. Ha visto migliaia di migranti, ma nessuno è rimasto a galla quanto questo amico iracheno con i baffi. “Lui viene pagato per assisterci nella traduzione e aiuta in altri modi. E’ una persona molto buona, dedicata. Vuole aiutare tutte queste persone, ma anche avere la giornata impegnata”.

Un sorriso luminoso appare sul volto di Safaa non appena inizia a parlare di bambini e giovani che sono passati attraverso il campo. Alcuni di loro lo chiamavano “padre”. Uno gli disse: “Non mi stavi solo insegnando la lingua, mi hai insegnato la vita”.

Anche se ha diritto di cercare un vero e proprio lavoro fuori dal centro e vivere dove vuole, Safaa non ha mai voluto lasciare la sua stanza disordinata a Banja Koviljaca. “Questa c’è la mia famiglia”, sussurra quasi. “Ogni giorno vedo mio figlio, mio nipote, mia moglie… vedo la mia gente. Hanno tutti bisogno di aiuto. E io li aiuto, gioco con i bambini, compro loro le caramelle…”

Per quanto riguarda la sua vera famiglia, ha tre fratelli in Germania, uno dei quali è un famoso dottore a Francoforte. Sua moglie e suo figlio stanno facendo grandi cose, a San Francisco. “Voglio che vengano da me. Ma loro non sono dello stesso parere” racconta Safaa, sapendo che nessuno sano di mente lascerebbe la California per una provincia serba. “Questa è la vita”, ammette.

Lascerà mai il centro? “Sono passati dieci anni, se un gatto rimane in una casa per alcuni mesi, non può andare da nessun’altra parte.” Usa la parola serba mačka, che vuol dire gatto. “Le interessa se qualcuno si prende cura di lei, se le da un posto caldo. Io sono un mačka”.

(DW, 30.11.2017)

http://www.dw.com/en/iraqi-refugee-calls-serbian-asylum-center-his-long-term-home/a-41599084

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