Se decenni di retorica europeista, di vertici con alti rappresentanti e inviati speciali, di visite pastorali di funzionari Ue, di centinaia di milioni di euro di donazioni e di campagne pubblicitarie “#EUzatebe” (L’Unione europea per te), di appelli accorati, inviti amichevoli, auspici insinceri e minacce più o meno velate da parte dei diplomatici europei ce lo avevano fatto dimenticare, la guerra in Ucraina ha ricordato a tutti che la Serbia è il paese più filorusso d’Europa.
Molti occidentali hanno preferito derubricare il grande corteo che il quattro marzo ha sfilato per le strade di Belgrado a sostegno della Russia come una manifestazione della destra sciovinista e panslavista e tranquillizzarsi alla luce del voto di condanna dell’invasione che all’assemblea dell’ONU il paese aveva espresso il giorno prima. Ma i due eventi non sono due manifestazioni opposte o contraddittorie, indice magari di una spaccatura tra il paese e i suoi rappresentanti, e men che mai l’evidenza di una volontà dei vertici politici di anestetizzare i diffusi sentimenti filorussi tramite un diritto di tribuna e scelte politiche filoccidentali.
Vi è al contrario una sostanziale coerenza e identità di vedute tra molti funzionari statali, dirigenti politici di primo piano e le piazze sovraniste e panslaviste, fatto di cui i movimenti sovranisti e nazionalisti di destra serbi sono pienamente consapevoli.

Per usare un concetto oggi molto in voga, il “deep state” serbo e le sue elaborazioni strategiche, economiche e geopolitiche sono ben distanti dall’atlantismo e semmai orientate a salvaguardare la sovranità statale, promuovere un’egemonia regionale ed evitare l’ingresso nella NATO. I bombardamenti del 1999 sono ancora una ferita aperta, non solo nella memoria, e nessun governo reggerebbe alle proteste popolari che seguirebbero a una eventuale adesione alla NATO. Diffusa resta la persuasione che con una Russia meno debole e filo-occidentale il conflitto in Kosovo avrebbe visto un altro esito.
Vero è che l’esercito serbo si è dato un’organigramma che rispecchia quello degli eserciti NATO e che si organizzano regolarmente esercitazioni congiunte, ma oggi questo livello di collaborazione è il massimo che vuole e può concedere la Serbia. La stessa nomina alla Difesa di un ministro sensibile agli USA come Nebojsa Stefanovic è da una parte una concessione, dall’altra una limitazione di agibilità politica di un ministero affidato a un politico oramai lontanissimo dalle grazie del presidente Vucic.
Nel suo articolo “Determinanti geopolitiche della politica estera della Serbia all’inizio del secolo ventunesimo” il politologo Dusan Prorokovic spiega le opzioni geopolitiche oggi di fronte alla Serbia: “(…) l’atlantismo (…) non è favorevole alla posizione complessiva della Serbia. L’ambizione di questo concetto è quella di limitare la proiezione politica della Serbia, e ciò è in parte motivato da eventi del recente passato, quando la NATO è intervenuta militarmente contro la Jugoslavia, fatto che ha determinato a lungo termine la posizione degli Stati Uniti nella regione dei Balcani”. Il continentalismo centro europeo di tipo tellurocratico che si irradia dalla Germania attraverso l’Unione europea, potrebbe essere un’opzione accettabile per la Serbia, se non fosse per il portato storico che ha visto la Germania aggredire tre volte il paese durante il Novecento (1914-1918, 1941-1945, 1999), promuovendo attivamente la frammentazione della Jugoslavia e il secessionismo kosovaro. L’indirizzo neo-ottomano elaborato dalla Turchia di Erdogan in sostituzione del kemalismo, fondandosi esso sull’islam non può trovare nell’ortodossa Serbia un partner reale. Resta così, secondo Prorokovic, solo l’opzione di legarsi alla visione euroasiatica, “la costruzione geopolitica della Russia, e posizionare la Serbia come la porta sud-occidentale dell’emergente integrazione eurasiatica”. Tuttavia, sottolinea Prorokovic, è necessario per la Serbia interloquire con Washington, Berlino e Ankara per evitare conseguenze devastanti.
Eccoci dunque all’indirizzo definito come le “quattro colonne della politica estera serba”, ovvero Washington, Brussels, Mosca e Pechino, sviluppato durante la presidenza di Boris Tadic e rielaborato da Aleksandar Vucic con l’aggiunta di un asse sovranista con Orban ed Erdogan e l’obiettivo di mutuare gli elementi di successo di Abu Dhabi sullo scacchiere globale.
Certo, per chi viene da un paese con una politica estera unidimensionale come l’Italia appare difficile, contraddittoria e forse velletaria la politica estera multidimensionale di un piccolo paese che punta a continuare ad avere una sua agibilità geopolitica.
Naturalmente non vi sono documenti ufficiali che esplicitano questa politica multipolare, se non segnatamente euroasiatica, perseguita dalla Serbia. Gli atti di indirizzo del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Serbia indicano cinque priorità strategiche: l’adesione all’Unione europea, il perseguimento della stabilità della regione, la neutralità dell’esercito, il mantenimento di buone relazioni con la Federazione Russa, la promozione di relazioni con gli altri paesi. Ma se il primo obiettivo viene da anni frenato dalla politica effettiva degli ultimi governi, su come perseguire la stabilità della regione vi sono idee diverse: per gli atlantisti essa passa attraverso l’adesione alla NATO della Serbia, per altri attraverso un bilanciamento dei poteri dei vari attori che operano nella regione, dunque proprio bilanciando la presenza NATO. La neutralità dell’esercito lascia poi spazio a libere interpretazioni, consentendo la cooperazione con la NATO (Partnership for Peace) e consistenti acquisi di armamenti dalla Russia: negli ultimi tre anni la Serbia ha comprato da Mosca cinque elicotteri Mi-17V-5, quattro elicotteri da combattimento Mi-35M, i sistemi lanciamissile “Pancir S1” e i missili anticarro teleguidati 9M133M Kornet-M. Arriviamo così alla quarta priorità della politica estera serba, proprio le buone relazioni con la Federazione Russa: la Serbia è l’unico paese nato dalle ceneri della ex Jugoslavia ad aver stipulato un accordo di libero scambio con la Russia e a non aver introdottocontro di essa sanzioni commerciali dopo l’annessione della Crimea nel 2014 né, finora, a seguito della guerra in Ucraina. Per quanto riguarda le relazioni con gli altri paesi, l’aver celebrato lo scorso ottobre a Belgrado i sessan’tanni della fondazione del movimento dei non allineati sembra uno dei tanti indizi di una visione multipolare e sostanzialmente distante dalla globalizzazione occidentale.
I legami economici e quelli ideali con la Russia
Il calore eccesso, a volte asfissiante, delle case e degli appartamenti serbi ricorda costantemente l’origine russa del combustibile. Eppure non è la dipendenza energetica il fondamento del legame tra Russia e Serbia, perché l’”accordo fraterno” siglato nel novembre scorso e valido per sei mesi fa pagare ai serbi il gas russo 270 dollari per mille metri cubi mentre i tedeschi lo pagano 230 dollari.
E mentre la Germania negli ultimi due decenni si è impiccata con le proprie lobbies industriali e politiche ai gasdotti russi, non si può dire lo stesso della Serbia, alla quale la Ue ha imposto di rinunciare al gasdotto russo South Stream (e ai relativi diritti di transito) con il suo clone successore russo-turco che Turkish Stream ha subito rinvii e ritardi per anni, mentre gli americani spingono affinché la Serbia fruisca dei rigassificatori posti sull’isola croata di Krk e ad Alexandropolis in Grecia.
E tuttavia l’interscambio tra Russia e Serbia sarebbe del tutto trascurabile senza l’impatto di gas e idrocarburi. Un recente studio del professor Goran Nikolic per la rivista Finansije evidenzia come l’interscambo tra i due paesi a partire dal 2013 ristagna e resta concentrato su risorse naturali o beni primari da parte serba e quasi esclusivamente su oil and gas da parte russa, con una costante tendenza a ridursi rispetto al totale dell’interscambio serbo con il resto del mondo. Tra il 2000 e il 2020 le esportazioni serbe in Russia sono passate da 92 a 800 milioni di euro e quelle russe in Serbia da 303 a 1388 milioni di euro, ma la dinamica degli ultimi anni indica che se nel 2011 le importazioni dalla Federazione Russa rappresentavano il 12,9% del totale e le esportazioni serbe il 6,7%, nel 2021 i dati preliminari indicano una quota dell’export russo pari solo al 5,2% del totale e una quota delle esportazioni serbe ridotte al 4,1% del totale.
In blu le esportazioni della Serbia verso la Federazione Russa; in rosso le importazioni dalla Federazione Russa in Serbia. Fonte: Rivista del Ministero delle Finanze serbo.
Una tendenza che già sembrava chiara a novembre scorso e che la guerra dovrebbe semmai acuire, mentre la Serbia punta ad aprirsi ad altri paesi e a esportare prodotti e servizi a valore aggiunto.
Da parte sua la Serbia ha sostanzialmente svenduto la Naftna Industrija Srbije (compresi i suoi pozzi di petrolio in Angola) alla Russia nel 2008 per appena 400 milioni di euro, grazie anche ai buoni uffici del Partito Socialista di Serbia, che al Cremlino è da sempre sostenuto e sostenitore.
Sembrano patti leonini di un paese che subisce una sorta di fascinazione per la Russia e Putin, come testimoniato dalle acclamazioni da rockstar che il presidente russo ha ricevuto nel corso della sua ultima visita in Serbia nel 2019, quando almeno 120.000 serbi si mossero da tutti il paese per mostrargli la loro ammirazione.

In realtà, la dirigenza del paese sa bene che le sue ambizioni in politica estera sono legate alla capacità e alla volontà della Russia di tutelarle in ultima istanza dall’espansionismo di altre opzioni politiche, siano esse atlantistiche, germanocentriche o anche legate al mercantilismo cinese.
Il quadro ambizioso e complesso che abbiamo tratteggiato è una caratteristica esclusiva della Repubblica di Serbia, che del titoismo ha rinnegato tutto, l’ideologia, l’impostazione economica, il modello sociale, ma non la vocazione a una politica estera multipolare, sia pure nelle ridotte dimensioni del paese.
Vi è una lontana radice ideale, panslava e religiosa nel rapporto che lega la Serbia alla Russia. Nelle ultime pagine del suo capolavoro “Migrazioni”, pubblicato nel 1929, Milos Crnjanski descrive come poteva apparire la Russia nelle aspirazioni del suo protagonista Vuk Isajkovic, reduce nel 1745 dalla spedizione militare del corpo d’armata serbo durante la guerra di successione austriaca:
“La Russia gli appariva come un regno soprannaturale. Aveva sentito dire che alcuni, giunti dalle parti più diverse, vi erano diventati in breve ricchi e potenti. Che avevano ottenuto subito una promozione. Che li si viveva e si faceva la guerra da signori. Che le chiese erano meravigliose e dolce l’ortodossia. L’opposto della miseria e della tristezza senza fine che lo attendevano invece qui e che minacciavano di renderlo folle, disperato e sempre più bizzarro. Qui c’erano solo il nulla e il vuoto, che sentiva oramai incombere sulla sua vecchiaia. […] quanto al futuro, la sola prospettiva luminosa era la Russia, quel paese immenso e coperto di neve, dove pensava di trasferirsi prima o poi, per avere una vita migliore, riposo, quiete”.
L’ortodossia come patria spirituale. L’idea di un paese sconfinato e dalle opportunità infinite, di un territorio immenso che prometteva la libertà di non dover sottomettersi al turco o non essere costretto a fare il soldato per la cattolica Maria Teresa.
E oggi ancora, ricorre l’idea che la libertà, l’autonomia e la stessa identità dei serbi possono essere salvaguardate solo da una Russia ideale e idealizzata, sorella e al contempo matrigna di un popolo troppo piccolo e fragile in rapporto alle sue ambizioni.
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Bibliografia
Dusan Prorokovic, Geopolitika Srbije, Sluzbeni Glasnik, Beograd, 2020
Aleksandr Dugin, La quarta teoria politica, NovaEuropa Edizioni, 2017
Milos Crnjanski, Migrazioni, Adelphi, Milano, 1981
„Politički odnosi Republike Srbije i Evropske unije”, Ministarstvo spoljnih poslova Republike Srbije, Beograd, 2017, www.mfa.gov.rs/sr/index.php/spoljna‐politika/eu/rep‐srbija‐eu?lang=lat
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