“Non volevo fare la guerra. Mio padre aveva già vissuto i massacri della prima guerra mondiale, la vita infame e fetida in trincea, le decimazioni dei suoi commilitoni del Sud solo perché non capivano gli ordini degli ufficiali del Nord, i feriti che venivano uccisi dagli austriaci spaccandogli le teste con le mazze chiodate.
Non volevo fare la guerra e ancora non volevo farla nemmeno quando vidi il mio amico sloveno Krainz preso dai nazisti e trascinato via, verso un campo di concentramento, destinato a morte certa, solo perché era sloveno, “e dunque infido e razza inferiore, da spazzar via per ripulire la terra italica”, dicevano i fascisti locali. Io ero figlio di un terùn di Recale, vicino Caserta, Bartolomeo, che a 19 anni aveva combattuto per queste terre e lì, a Savogna d’Isonzo, aveva trovato il lavoro e l’amore di mia madre slovena, Maria Vuk. Nella mia famiglia non si facevano distinzioni.
La famiglia di Bartolomeo Marino in occasione di un matrimonio con sullo sfondo il tricolore italiano
Quando la guerra finirà tornerò a Ivrea, a lavorare alla Olivetti e magari ritroverò la collega Rosina. Ora si trattava solo di nascondersi, non farsi scoprire dai tedeschi, avere papà, la mamma e mia sorella vicine e assieme passare questa burrasca, risistemare la nostra casa in pietra a fianco della chiesa e aspettare di ricominciare a vivere. Queste erano le nostre semplici speranze.
Non volevo fare la guerra ma la rabbia era troppa, la rabbia che può avere un ragazzo di diciotto anni di fronte a un ingiustizia, una rabbia che con la forza della giovinezza ti può spingere a fare di tutto, dopo che avevo perso uno, due, più amici, solo perché erano sloveni. Allora decisi che i nazisti e i fascisti l’avrebbero pagata, avrei seguito il gruppo guidato da Devetak e avrei combattuto per Krainz e per gli altri. Così diventai un ribelle, solo dopo seppi di essere un partigiano.
Eravamo in dodici. A Torino prima dell’otto settembre mi avevano precettato e inquadrato nel regio esercito e avevo seguito il corso per le reclute. Sapevo come tenere un fucile ma contro i tedeschi la lotta era quasi disperata. In uno dei primi scontri fui ferito alla spalla, il sangue schizzava fuori a fiotti, i tedeschi ci inseguivano. L’unica via di fuga era tuffarsi nell’Isonzo ghiacciato. Il freddo bloccò l’emoraggia ma io ero oramai quasi assiderato e dissanguato. Mi salvò un contadino, che mi portò in spalla fino a una cascata. Dietro di essa, in una gola, vi era l’ospedale da campo dei ribelli sloveni, la Bolnica Franja.
La bolnica (clinica) “Franja”
La bolnica “Franja” prese il nome dalla sua direttrice Franja Bojc Bidovec ed era un complesso di dodici edifici mimetizzati all’interno della gola di Pasica, cui si accedeva attraversando una cascata e un sistema di ponti in legno, retraibili in caso di necessità. Aperto a fine 1943, rimase in funzione fino a maggio del 1945 e offriva diagnosi e cure di alto livello, potendo vantare anche una unità per le radiografie. Centinaia furono i partigiani, sloveni e italiani, ma anche russi, polacchi, francesi, jugoslavi e un pilota d’aereo americano, che vennero curati dai medici e dal personale della struttura, tra cui si distinse il napoletano Antonio Ciccarelli.
Nascosto dalla fitta vegetazione e a pochi chilometri in linea d’aria da Vienna, esso non venne mai scoperto dalle forze nazifasciste.
La lacerazione era profonda e provarono a cucirmi la ferita mentre ero ancora incosciente. Il dolore mi fece svegliare, vidi il “dottore” che mi cuciva con del filo di metallo “Tu non sei un dottore, ti conosco, tu sei l’elettricista del paese”. “In guerra si è un po’ di tutto, non fare storie. Ora sono chirurgo”, rispose, continuando la sua opera.
Grazie alle cure di questo ospedale-rifugio, potei riprendermi e riprendere la lotta. I partigiani si erano rafforzati, oramai nella primavera del 1944 gran parte della Slovenia era sotto il nostro controllo. Dovevamo decidere se indirizzarci verso il Friuli e continuare la lotta in Italia o andare a dare manforte ai compagni che combattevano i tedeschi nella pianura orientale. Scegliemmo questa seconda strada, ma dovevamo trovare il modo di raggiungere il fronte, che si trovava 500 chilometri ad est. A piedi era impossibile, perché tedeschi e ustascia ancora controllavano gran parte della Croazia. Ci venne allora l’idea di rubare un treno e di arrivare al fronte non passando per Zagabria, ma attraverso l’Ungheria. Il treno aveva una motrice a legna che non faceva più di dieci chilometri all’ora. Di notte viaggiavamo e di giorno cercavamo di rastrellare qualsiasi oggetto in legno, porte, finestre, tavoli, mobili, rami, alberi, da buttare dentro la fornace della motrice.
Eravamo oramai arrivati a destinazione quando mi arrivò la notizia che una bomba aerea aveva ucciso mia madre e mia sorella. I maledetti tedeschi, dovevano pagarla, ma non solo quelli al fronte. Uscii in strada di notte e spaccai a pugni tutte le finestre delle case dei tedeschi che abitavano a Ruma. Se qualche tedesco di Vojvodina fosse uscito a protestare lo avrei ammazzato. Solo dopo molti decenni seppi che il bombardamento che mi portò via mia madre e mia sorella fu verosimilmente alleato.
Arrivammo così in tempo per partecipare alle battaglie sullo Sremski Front, gli scontri più feroci che avessi mai vissuto. Era guerra di trincea, con i tedeschi sulla difensiva ma decisi ad ammazzare più persone possibile. Settimane intere in trincea, le bombe e i colpi di mortaio facevano ogni volta una carneficina e il puzzo di sangue e visceri non ci consentiva di dormire in trincea, dove a volta si sguazzava nel sangue. Noi pensavamo solo a combattere, uccidere e salvarci con la violenza che hanno gli animali feriti. Quando riuscivamo, andavamo a riposarci e a dormire nel cimitero di Ruma, dove mangiavamo anche le offerte di cibo lasciate per i morti. I russi dell’Armata Rossa erano eroici, combattevano e morivano come se fosse il loro paese. Passavo molto tempo con uno di loro, un uomo enorme e sanguigno, da cui imparai anche un po’ di russo. Su ogni braccio portava almeno dieci orologi. “Che ne fai? Non ti pesano?” Gli chiesi quando entrammo in confidenza. “Sono le mie medaglie – rispose – Ogni volta che ammazzo un tedesco la prima cosa che faccio è prendergli l’orologio”. Passamo molti mesi assieme, mi insegno anche un po’ di russo. Alla fine della guerra mi regalò un orologio della sua collezione.
Oramai la guerra era vinta. Ad aprile i tedeschi erano sbaragliati e rapidamente arrivammo a Vukovar e Vikovci. Avevamo vinto, vinto dopo anni di sofferenze di tutti i generi. Furono giorni di esaltazione collettiva. Ma io cosa avrei fatto? Tornare a casa da mio padre, senza più mia madre e mia sorella? Tornare a Ivrea, a fare l’operaio in una fabbrica che sicuramente non esisteva più, distrutta dai bombardamenti? Tornare in Italia, in una nazione sconfitta, che non poteva garantire nulla?
Noi stranieri che avevamo combattuto con i partigiani fummo convocati dal colonnello. “Ragazzi, potete scegliere: o tornate nel vostro paese, oppure potete rimanere qui ed essere inquadrati nell’esercito. Vi garantiamo una casa espropriata ai tedeschi e lo stipendio e i privilegi del far parte della vittoriosa Armata Nazionale Jugoslava”. Non ci pensai due volte. Avevo combattutto qui e questo sarebbe stato il mio paese. Vincenzo Romano Marino diventava Vinko Marino, come mi aveva battezzato un capo partigiano. A sinistra mi vedete fotografato con la divisa dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA).
Grazie alla mia esperienza da operaio mi inquadrarono come meccanico degli aerei di stanza all’aeroporto di Zagabria. Il capitano all’inizio non mi teneva in grande considerazione: “Che lingua parli?” “Italiano e sloveno come madre lingua, serbo-croato abbastanza bene”. “Allora sulla tua scheda personale scriverò che sei semianalifabeta”. Ma la rivincita arrivò presto. In quegli anni appena finita la guerra tanti pezzi e ricambi dell’aeronautica arrivavano dall’Italia, portati da militari italiani, tra i quali, con grande sorpresa ed emozione, ritrovai anche un paesano di Savogna, Franjo, che poi sarebbe diventato il panettiere del paese. Le istruzioni di questi materiali erano solo in italiano e nessuno sapeva come raccapezzarsi. Lo stesso capitano mi mandò a chiamare. “Tu conosci l’italiano? Sai leggere?” “Sì, certo” “Allora da oggi sei responsabile della manutenzione e dei ricambi degli aereomobili” “Ma come faccio? io sulla scheda risulto semi-analfabeta” “Ah – fece il capitano – d’ora in avanti per mio ordine diventi istruito anche sulla scheda personale”.
Dopo Sombor, Sarajevo, Zagabria e Batajnica, alla fine fui assegnato a Pancevo, dove mi viene dato in uso un appartamento all’interno di una grande casa già appartenuta a una famiglia tedesca fuggita dopo la fine della guerra. Alla mensa militare c’era una ragazza che quando arrivava il mio turno mi sorrideva e mi metteva una scodellata di minestra in più o un pezzo di carne più grosso. Zorka era fatta così, non conosceva i sentimentalismi. Anche lei aveva perso la madre da poco a causa della tubercolosi ed era sola, lontana da casa, profuga da Banja Luka. Quando avemmo modo di parlare scoprimmo questi dolori simili che ci accomunavano, la famiglia ormai perduta e lontana, l’idea che l’esercito che aveva sconfitto i nazisti poteva darci la tranquillità e la serenità che la guerra ci aveva sottratto. Così ci innamorammo e ci sposammo. Come viaggio di nozze andammo a trovare mio padre, che alla frontiera ci portò un sacchetto di riso di buon augurio con dentro nascoste le fedi. Eccoci in questa foto, sorridenti, giovani, innamorati:
Avemmo tre figli: il primo ce lo portò via poco più che neonato la polmonite, il secondo, Ivica, è emigrato in Canada, quasi scappato pur di non andare a combattere in Bosnia, il terzo, Milan, è rimasto a Pancevo e comunque non ha voluto combattere le guerre degli anni Novanta.
Passavano gli anni e Zorka diventava sempre più dura verso di me. Il risentimento, l’insoddisfazione, l’astio prendevano gradualmente il posto dell’innamoramento. Io ero stanco di guerre, conflitti e litigi, avevo visto troppa violenza e volevo solo vivere tranquillo. “Debole, passivo, senza palle”, così ero diventato per lei. Nel 1962 divorziammo. Di lì a poco incontrai una donna di Nis, anche lei di nome Zorka, e chiesi all’esercito di essere trasferito in quella città. La prima moglie si tenne i figli e dopo quindici anni ricominciò a lavorare, adattandosi a fare qualsiasi lavoro per poi sistemarsi come capo cameriera in una kafana, una trattoria. .
La mia vita ricominciò a Nis, dove ebbi un altro figlio, Goran, e dove incontrai nello stesso palazzo un altro italiano, Giuseppe Callenzini di Trieste, il quale, come me, aveva combattuto per Tito e aveva deciso di rimanere in Jugoslavia.
La vita militare aveva i suoi vantaggi. Buon stipendio, bell’appartamento, diffuso rispetto grazie al tesserino militare, vacanze due volte l’anno e missioni all’estero. Nel 1975 andammo in Libia con la Energoprojekt. Dovevamo costruire degli hangar per l’aeronautica di Gheddafi, un bel lavoro che durò quattro anni, anche se rischiai grosso: con alcuni colleghi spiammo delle belle libiche mentre si spogliavano. La polizia ci scoprì, ma la lingua italiana mi venne in aiuto. I libici parlavano arabo e noi serbo-croato e non avevamo la possibiltà di scusarci e di chiarire. La situazione stava diventando sempre più pesante, rischiavamo la prigione e di conseguenza l’espulsione dall’esercito al nostro ritorno in patria. Allora provai a parlare italiano e i poliziotti mi risposero perché lo avevano studiato a scuola. Diventarono subito meno rigidi e chiesi loro la cortesia di prendere l’episodio come una bravata di colleghi annoiati e di essere comprensivi. Ecco come l’italiano, se non la vita, salvò per la seconda volta la mia carriera.
Tra i vantaggi della vita militare c’era anche la pensione anticipata. Si poteva andare in pensione a 53 anni e solo allora, nel 1979, lo Stato jugoslavo scoprì che non avevo passaporto, insomma non avevo una nazionalità tra quelle della repubblica federale e, visto che la pensione veniva pagata dal bilancio delle singole repubbliche, dovevo scegliere quale mi avrebbe poi pagato la pensione. Avevo vissuto quasi sempre in Serbia, i miei figli erano nati e vivevano in Serbia, ma mia madre era slovena e allora decisi di definirmi tale. Così dopo essere stato italiano, per tredici anni fui sloveno, fino al 1992, quando la Slovenia indipendente decise di cancellare dal suo bilancio pensionistico circa 27,000 persone, tra cui i bosniaci con cittadinanza slovena e i militari. Ancora una volta, a 66 anni, mi ritrovai di nuovo senza una nazionalità. Divenni così serbo, la mia terza cittadinanza.
Persi Zorka di Nis nel 1996. Così in quell’anno ritornai a Pancevo. Dopo 35 anni di silenzio e di ostilità incontrai la mia prima moglie, con i figli grandi e i nipoti che non avevo mai visto prima. Zorka mi propose: “Mi sei servito in gioventù, adesso mi servirai nella vecchiaia”. E fu così che dopo 35 anni ritornai insieme alla mia prima moglie.
Di questi ultimi venti anni ho poco da raccontare e tanto su cui riflettere. Collassato il paese che ci inorgogliva tanto e di cui credevamo di essere, noi militari, i custodi. Spariti gli ideali per cui avevamo combattuto, per principi opposti ai nostri sono morti tanti ragazzi negli anni Novanta. I miei ultimi anni sono trascorsi tranquilli. Zorka è scomparsa nel 2005, ma io ho avuto la fortuna di vedere i nipoti e i pronipoti crescere.
Italiano, jugoslavo, sloveno, serbo: sono stato tutte queste nazionalità e mi sembra assurdo che tante persone siano morte per rivendicare questa o quell’altra origine, mentre a me tutte sono quasi capitate per scelta contingente od obbligo burocratico.
Quando mi spegnevo il 12 giugno scorso, pensavo che per anni ho vissuto benissimo senza passaporto. Nella mia famiglia non si facevano distinzioni”.
Vincenzo Romano “Vinko” Marino, l’ultimo partigiano italiano in ex Jugoslavia, si è spento a Pancevo il 12 giugno 2015 a 88 anni. Il testo nasce da un colloquio con il figlio Milan e la nipote Milica.