Le sfide della Serbia nel 2018

     In un paese che sbandiera la sua direzione europea e al contempo ostenta la sua attrazione verso la Russia, tra un centro di Belgrado illuminato a festa per mesi e tante altre città dove il tempo è fatto di ruggine, tra allarmi e rassicurazioni dei politici delle sponde opposte, tra imprenditori insoddisfatti e altri entusiasti per aver scelto la Serbia, tra siti web che esaltano il paese come un eldorado dove tutto è possibile e altri che ne raccontano la corruzione e la povertà, risulta davvero difficile, per chi opera o intende operare nel paese, prevedere cosa accadrà nel 2018: se l’economia davvero crescerà al 3%, se inflazione e cambio rimarranno stabili, se il governo non sarà travolto dai conflitti al suo interno o dalle pressioni esterne, se si arriverà a un accordo sul Kosovo, se la Serbia, insomma, potrà ancora essere considerata una scommessa che vale la pena di correre o l’eterna candidata a un rilancio economico e geopolitico che da troppi anni continua a ritardare.

Lo scenario economico

Anche quest’anno la crescita effettiva del prodotto interno lordo serbo non rispetterà le previsioni. Di certo, per ammissione della stessa Prima Ministra, sarà inferiore al previsto 3%, ancora dichiarato dal Fondo Monetario Internazionale. Se, come diceva Mark Twain, la gente (e ancor di più il politico) si appoggia alle previsioni statistiche come gli ubriachi ai lampioni, bisognerà pure chiedersi perché in Serbia i dati statistici di consuntivo sono sempre al di sotto delle previsioni: quando sbagliano costantemente anche le istituzioni internazionali, non lo si può solo attribuire alla propaganda governativa. Vi sono di certo dei fattori frenanti che da decenni bloccano il potenziale del paese. Di questo gli investitori devono tenerne conto quando puntano sulla Serbia, per riuscire a coglierne le opportunità piuttosto che i limiti. In mancanza di dati a analisi definitive, si può ipotizzare che lo scostamento sarà la conseguenza del processo di polarizzazione delle attività economiche tra la capitale e il resto del paese. La capitale cresce nettamente sopra la media nazionale, trainata dal terziario e dalle costruzioni (anche se nella capitale il rilascio delle licenze edilizie digitali non è veloce come in altre città), mentre intere aree del paese sono in continua recessione o confidano solo in investimenti diretti esteri, i quali spesso sono operazioni labour-intensive, basate su salari di sussistenza uguali o poco più alti del minimo nazionale di 230 euro al mese netti, che tamponano la disoccupazione, ma non consentono di innescare un ciclo di sviluppo economico locale.

Gli investimenti labour-intensive non potranno essere l’unica modalità di sviluppo delle zone depresse del paese.

Il paese sconta l’essersi proposto per anni solo per il basso costo del lavoro, sicché molti investitori non hanno considerato, o hanno sottovalutato, altri vantaggi del paese, quali il basso costo dell’energia, la buona posizione logistica, giovani poliglotti o con ottime competenze informatiche e relazionali, e, per gli italiani, una burocrazia e una tassazione meno ossessive di quelle nazionali.

Forme di resistenza a salari così bassi si manifestano con la preferenza, anche nelle zone più povere del paese, a coltivare un pezzetto di terra piuttosto che andare in fabbrica o con un alto turnover, fattore che crea difficoltà a molte imprese nel reperire manodopera continuativa. Questi fenomeni spingeranno prima o poi molte imprese a offrire qualche euro in più in busta paga, creando le condizioni per un incremento del costo del lavoro.

In qualche modo la Serbia ha già iniziato a ripensare i modelli di incentivo offerti dalla RAS – Agenzia di Sviluppo della Serbia, la quale ora ha criteri più stringenti per premiare innanzitutto l’impatto sull’occupazione del territorio e il costo impresa effettivo di ogni salario. Finiti sono i tempi in cui la Serbia donava fino a 10,000 euro per nuovo posto di lavoro (promesso), e qualche sito web che ancora decanta questo modello o non è aggiornato o è in malafede. Nei prossimi anni le sovvenzioni agli investimenti saranno sempre più tese a premiare la dinamica salariale e l’insediamento in zone disagiate del paese, mentre già oggi un’impresa che nel suo paese di origine è in fallimento, concordato preventivo o amministrazione controllata, non può fruire delle sovvenzioni statali serbe.

Quindi un paese senza più elementi di interesse? Per nulla. Semmai verranno meno i presupposti per investimenti superficiali focalizzati solo su un rispamio a breve sul costo del lavoro e bisognerà sempre più sviluppare business plan realistici e capaci di intercettare i molteplici fattori di vantaggio della Serbia.

L’andamento dell’inflazione in Serbia negli ultimi 10 anni (da Trading Economics)

Il paese d’altronde dovrebbe mantenere la stabilità macroeconomica recentemente conquistata, pertanto più che l’alea del paese di appena quattro anni fa,  dal cambio ballerino, con i tassi di interesse sui depositi bancari al 16% ma un’inflazione al 15%,  un deficit pubblico sempre ai limiti della bancarotta, bisognerà puntare su un paese che sta tentando di perseguire la stabilità in ogni ambito: un’inflazione a meno del 2%,  tassi bancari che si avvicinano al 2% per i migliori clienti, un cambio che tende a migliorare rispetto all’euro, un quadro legislativo e burocratico che ambisce a ricorrere meno a continue integrazioni legislative e circolari esplicative.

La politica

La posizione di Aleksandar Vucic è meno forte di quanto si crede. Se si scorre con cognizione di causa la lista dei ministri dell’attuale governo si capisce che non più della metà dei ministri può essere considerata fidata da Vucic, il quale ha probabilmente raggiunto il massimo potenziale della sua capacità centripreta: non sono rimasti altri soggetti che possono essere inglobati nel suo progetto politico.

La composizione dell’attuale governo dimostra che non si tratta di un “monocolore Vucic”.

La inevitabile alleanza con i socialisti, che da sempre hanno uno stretto legame con Mosca, deve essere bilanciata con una componente governativa più filooccidentale, reclutata sia dentro sia fuori il Partito del Progresso Serbo.  Il manuale Cencelli della politica serba passa non solo dalla scrivania di Vucic, ma anche attraverso le cancellerie di Stati Uniti, Russia, Germania, Turchia e paesi scandinavi. Chi si stupisce delle tentazioni ricorrenti di Vucic a convocare le elezioni anticipate in assenza di un’opposizione consistente non coglie che i risultati elettorali e il livello di gradimento del Presidente della Repubblica sono messaggi principalmente per i partner esteri che per la popolazione. L’opposizione è debole e frammentata da rancori e gelosie, mentre chi cerca di emergere come leader diviene immediatamente oggetto di killeraggio mediatico da parte dei tabloid filogovernativi. Lo stesso ritorno in scena come candidato a sindaco di Belgrado di Dragan Djilas, ritiratosi dopo aver portato il partito democratico ai minimi termini elettorali nel 2014, non è un indizio di salute dell’opposizione. Semmai Djilas è l’unico candidato capace di ottenere una certa neutralità da molte testate grazie all’influenza del suo centro media, che garantisce la distribuzione degli spazi pubblicitari a quasi tutte le testate del paese. .

La Prima Ministra Ana Brnabic punterà a conquistare sempre più spazio politico, dimostrando di non essere, come molti credono, una marionetta di Vucic, ma un soggetto politico capace di crescere per consenso nei sondaggi e di rassicurare i circoli internazionali che la appoggiano. La durata del governo Brnabic, e dunque il suo successo politivo personale, in un paese dove le religioni soffiano ancora forte sulla fiamma dell’omofobia, dipenderà dalle riforme che riuscirà a realizzare e che le istituzioni internazionali e alcuni paesi, a iniziare da USA e Ue, chiedono da anni.

La prima ministra Brnabic si gioca il rafforzamento del suo spazio politico sulla riforma del settore pubblico.

La grande questione aperta rimane quella del settore pubblico e delle imprese statali, che oggi è un mastodonte di oltre 700.000 persone in un paese che dichiara 2,9 milioni di occupati, compresi quelli in nero e che lavorano anche solo per un’ora a settimana. Questi ultimi dati fanno intuire che il settore pubblico, pur con molti  stipendi da poco più di 300 euro al mese, resta per centinaia di migliaia di serbi un porto sicuro, dove, a differenza di molte imprese private, il salario arriva con regolarità. Il blocco delle nuove assunzioni nel pubblico (interpretato con flessibilità) non basterà a contenere la spesa del settore e il governo dovrà decidere se procedere a tagli orizzontali, riducendo ancora la qualità della sanità e dell’istruzioni pubbliche, o intaccare le tante rendite di posizione partitiche di tante amministrazioni ministeriali e centrali. In ogni caso pensare che i dipendenti pubblici in esubero inizino un’attività in proprio e vadano a lavorare nel settore privato è un’ingenuità o mera propaganda: andranno a incrementare il settore “informale”, magari proponendosi come “facilitatori” nei confronti dei loro ex colleghi. Se poi davvero si arriverà a tagli significativi, proteste e scioperi nel settore publico sembrano inevitabili.

Ogni progetto di digitalizzazione del settore pubblico comporta inevitabilmente una riduzione del personale richiesto per le varie procedure e al contempo anche persone maggiormente capaci di presidiare processi digitalizzati: non si capisce però come i giovani laureati serbi altamente qualificati possano essere attratti dal settore pubblico se non verranno emanate leggi per incrementare i salari nel pubblico delle persone con alte competenze e per incentivare il rientro della diaspora intellettuale.

Sul fronte del lavoro, il previsto incremento della soglia di esenzione sui salari dell’imposta sui redditi personali porterà qualche euro in più ai lavoratori e nessun beneficio ai datori di lavoro. Il bilancio dello Stato, soprattutto quello del fondo pensioni, non è in grado di sostenere una riduzione dei contributi per cui tra tasse e contributi si continuerà a pagare il 70% del netto. Se la soluzione informale di tanti datori di lavoro è quella di pagare solo il salario minimo riservandosi di integrare in contanti la differenza con il netto pattuito, di certo aumenteranno in parallelo i controlli ispettivi, le verifiche di congruità e gli incentivi per regolarizzare i dipendenti o accrescere la busta paga regolare.

La grande sfida della politica economica interna sarà quella di far partire lo sviluppo economico locale in maniera endogena, promuovendo nuove imprese o rilanciandone altre che hanno competenze e tradizioni che possono trovare spazio sul mercato internazionale. Ci sono ottimi strumenti sostenuti da istituzioni di credito internazionali come EBRD o Fondo Europeo per gli Investimenti, ma spesso mancano le competenze per accedere a questi fondi.

Lo sviluppo del potenziale agricolo del paese è un impegno di tutti i governi, ma finora il paese non sembra avere una strategia chiara al riguardo. Da una parte la pianura alluvionale della Vojvodina ha un potenziale naturale tra i migliori d’Europa, ma con rese estremamente basse a seguito degli scarsi investimenti in impianti di irrigazione e in meccanizzazione e con una produzione ancora troppo focalizzata su cereali, barbabietola da zucchero e girasoli, che non consentono grandi margini. Il passaggio dalla cerealicoltura alla frutticoltura appare lento anche a seguito delle scarse risorse finanziarie dei singoli imprenditori agricolti. La collinosa e montanosa Serbia centrale avrebbe bisogno di una strategia di sviluppo di produzioni ad alto valore aggiunto con un forte accento su qualità e sulla riconoscibilità sui mercati esteri che tuttavia solo ora muove i primi passi.

Il bando per fruire dei fondi IPARD per la meccanizzazione delle imprese agricole è stato aperto pochi giorni fa e dovrebbe essere solo un piccolo saggio dei fondi europei che saranno fruibili dopo l’apertura dell’Agenzia per il pagamento dei fondi europei per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Se la Serbia saprà utilizzarli o se ripeterà l’esperienza della Croazia con quasi il 90% dei fondi a disposizione non utilizzati dipenderà molto dal Governo, dal Ministero dell’Agricoltura e dalla volontà di inserire personale qualificato e competente in questo ambito.

Dopo le operazioni di compravendita o di affitto a lunghissimo termine stipulate con imprese emiratine o finanziate dai cinesi, a molti stranieri viene fatto credere che sia possibile rilevare agevolmente terreni agricoli in Serbia. Attratti dalla crescita del prezzo dei terreni, arrivati anche a raddoppiare di valore in 5 anni nelle zone migliori della Srem, molti stranieri credono di poter fare buoni affari. In realtà la recente legislazione pone delle condizioni estramente rigide per acquisti da parte di persone fisiche straniere, e in ogni caso non superiori ai 2 ettari. Lo spazio legislativo non normato inerente gli eventuali acquisti di terreni da parte di società società con partecipazione o controllo estero resta piena di ambiguità.

Lo scenario internazionale

La nomina a fine novembre di Brian Hoyt Yee ad Ambasciatore americano in Macedonia è un segnale forte a tutta l’area. Irrealistico pensare che il diplomatico che appena due mesi fa ha dichiarato senza mezzi termini alla leadership politica serba di smetterla di volersi “sedere su due sedie” e di optare definitivamente per una scelta europeista e implicitamente atlantica, si limiterà a seguire e supportare il regime change  che ha portato a Skopije il governo Zaev. Molto più probabile che operi come un proconsole USA per tutta l’area balcanica, facendo innanzitutto pressioni su Aleksandar Vucic per quanto riguarda i suoi rapporti con la Russia, rincofermati dal suo recente viaggio a Mosca.

Dopo il lungo incontro con Putin a Mosca (oltre due ore e mezza), Vucic ha ribadito che la Russia è “un nostro partner strategico in tutti i campi”

La Russia, proponendo alla Serbia di far parte del gasdotto Turkish Stream, continua nella sua geopolitica dell’energia per condizionare non solo l’area, ma soprattutto l’intera Europa, in coordinamento con Erdogan. Facile ipotizzare un incremento della tensione regionale sul grande tema dei rapporti diplomatici della Serbia. Il multilateralismo della Serbia, pronta pragmaticamente a collaborare con paesi dagli obiettivi geopolitici radicalmente diversi, porterà sempre più certi paesi a richiedere delle prove di fedeltà. Per gli USA il percorso inevitabile passa attraverso il riconoscimento del Kosovo, l’adesione alla NATO e solo alla fine l’integrazione nella Ue. La Russia dal canto suo non si fermerà a ottenere lo status diplomatico per il “centro di aiuti umanitari” di Nis, che in realtà monitora le attività di Camp Bondsteel in Kosovo, ma rafforzando la cooperazione militare con forniture molto generose, punta a rendere ancora più complessa l’eventuale adesione alla NATO. L’accoglienza quasi entusiasistica di Recep Tayyip Erdogan nella sua visita di ottobre in Serbia sicuramente influenzerà in qualche modo la trattativa sul Kosovo (dove la Russia è stata invitata a  fare da mediatrice), ma bisognerà capire se l’eventuale equidistanza di Erdogan verrà ripagata attraverso un giro di vite, come da tempo pretende l’ambasciatore turco, sui turchi vicini a Fetullah Gulen che da tempo operano a Belgrado o sui turchi laici che di recente hanno deciso di vivere nella capitale serba.

La privatizzazione del conglomerato agroindustriale PKB, con i suoi 26,000 ettari e migliaia di capi di bestiame, sicuramente segnerà un ulteriore elemento di scelta politica, visto che in lizza rimangono un’impresa dell’emirato di Abu Dhabi e una della Repubblica Popolare cinese.  Se favorire il prodigo emiro di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed (tradizionalmente vicino a repubblicani americani) che ha già acquisito la gestione di non meno di 40,000 ettari, o Xi Jinping, che intende incanalare in Serbia molte imprese cinesi nel quadro della visione “One belt, one road” e si pone sempre più come potenza globale alternativa agli USA e allo stile di Trump, sarà una scelta prima politica che economica, dirimente per comprendere come la leadership del paese intende porsi rispetto a certe relazioni globali.

Comparazioen tra investimenti dalla Ue e dalla Russia (da Radio Free Europe/Radio Liberty)

Ad oggi i rischi di instabilità del paese derivano meno dal bilancio pubblico e dalle tensioni politiche interne che dai rapporti tra i tanti paesi di cui la Serbia si dichiara sincera amica. Come in ogni situazione della vita, tra gli amici bisogna scegliere chi è più amico. L’Unione europea, con cui la Serbia ha circa il 70% del suo interscambio commerciale, sembra ora incapace di offrire una visione del futuro convincente per i serbi. Lo stesso multipolarismo inseguito dalla politica estera serba sembra un modo per evadere delle scelte e impostare un piano B rispetto a un’integrazione cui la stessa Bruxelles non sembra più interessata come in passato e di certo per nulla interessata a velocizzarne i tempi.

Dunque che fare?

A chi si è sentito finora raccontare la Serbia con superficialità o faciloneria, la presentazione delle sfide che attendono il prossimo futuro della Serbia può suscitare perplessità e spingere ad accantonare certe idee messe in piedi con troppo ottimismo. Ma comprendere la complessità di un paese è il primo passo per potervi operare. Se per la Serbia è arrivato forse il momento di un salto di qualità, lo stesso si può dire per chiunque abbia progetti di investimento nel paese.

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