Il secondo dopoguerra non è stata solo una grande opera di ricostruzione materiale dell’Europa, uscita devastata dalle distruzioni belliche, occupata dai vincitori e divisa dalla guerra fredda, come hanno raccontato magistralmente Tony Judt e, più recentemente, Ian Buruma. Meno studiata e altrettanto essenziale è stata l’opera di ricostruzione della fiducia e di superamento degli sciovinismi tra i popoli europei, quel movimento di apertura e interesse verso le diverse culture d’Europa che ha posto le basi del più lungo periodo di pace nel più piccolo dei continenti. In questo senso la cultura e i media di massa hanno ricoperto un ruolo essenziale, consentendo a decine di milioni di persone di conoscere e apprezzare aspetti della vita, della cultura e dello svago di altri popoli, precedentemente denigrati dalla propaganda nazionalista.
All’interno di questa storia sociale il rapporto tra Italia e Jugoslavia ricopre un ruolo unico. Due nazioni, che condividevano una storia opposta e reciproca fatta di razzismo, infoibamenti, occupazione, esodi forzati e rivendicazioni territoriali, all’indomani degli accordi di Londra sull’assetto territoriale di Trieste e dell’Istria iniziano a scoprirsi, con la Iugoslavia immediatamente affascinata dallo stile di vita e dalla cultura di massa italiana, che rappresentava anche agli occhi del regime titino una variante accettabile, bonaria e allegra, della società dei consumi occidentale.
Una fascinazione che, partita a metà anni Cinquanta, dura in parte ancora fino ad oggi e che rassomiglia a un amore adolescenziale cui si resta per sempre legati. Di questo abbiamo parlato con Francesca Rolandi, ricercatrice presso l’Università di Fiume e autrice del saggio “Con ventiquattromila baci. L’influenza della cultura di massa italiana in Jugoslavia (1955-1965)”
Nell’Europa del Dopoguerra non è esistito nessun altro rapporto tra popoli tanto pervaso da ammirazione acritica come quella che nutrivano gli jugoslavi verso l’Italia. Musica leggera, cinema, televisione, moda, cibo: nel libro racconti di come l’Italia veniva vista e proposta come un modello in quasi tutti i campi della cultura popolare. Ma perché proprio l’Italia e non l’Austria, ad esempio, paese con il quale almeno la Slovenia aveva storicamente rapporti strettissimi?
“Io credo che si sia trattato sia di un fenomeno internazionale che locale. Nel mondo anglosassone la fascinazione per l’Italia come patria del gusto, della bellezza, dell’armonia si impose in particolare dall’inizio degli anni ’60, in concomitanza con il boom economico e con i grandi successi cinematografici internazionali, mentre in precedenza l’immagine dell’Italia era ancora profondamente intaccata dalla grande povertà e arretratezza, per esempio se comparata al Nord Europa. In Jugoslavia questa immagine si formò già prima, dalla metà degli anni ’50, perché i termini di paragone erano diversi. Se invece guardiamo a livello locale, credo che l’immagine dell’Italia si sia imposta con così grande facilità perché in un certo senso l’Italia e la Jugoslavia erano due vicini che riuscivano a parlarsi dalla metà degli anni ’50, nonostante i trascorsi storici e la differenza nei sistemi politici. Naturalmente l’immagine dell’Italia variava da zona a zona, per esempio era molto più incondizionatamente positiva in Serbia che nelle zone che avevano sperimentato direttamente il fascismo e l’occupazione italiana, come la costa, dall’Istria al Montenegro. Qui ovviamente esisteva un’avversione verso la memoria dell’imperialismo italiano che alle volte si allargava all’intera cultura italiana che era stata imposta con il fascismo e l’italianizzazione forzata. Tuttavia, la cultura di massa, proprio per il suo carattere di fenomeno moderno, internazionale e sostanzialmente non legato a questioni nazionali, riuscì a superare queste barriere in tutta la Jugoslavia e a trasmettere un’immagine diversa da quella dell’Italia fascista. Anche dove era viva e veniva coltivata la memoria dei crimini commessi dagli italiani si guardava la televisione italiana ed esisteva la percezione che si trattasse di due aspetti differenti dell’italianità. Anche con l’Austria esistevano dei legami forti e storici, ma erano più legati a una concezione utilitaristica. In Austria si andava a lavorare come lavoratori ospiti – gastarbajteri –, vi si acquistava la tecnologia perché era considerata di migliore qualità, ma la fascinazione e il senso di comunanza culturale era minore. All’avversione verso il mondo germanofono contribuiva in parte anche la memoria dell’occupazione nazista della Jugoslavia, che rimase viva nei decenni. Anche l’Italia era stata un paese occupante, ma dell’Italia esisteva un’immagine più sfaccettata, era un paese che si era in parte riabilitato con la resistenza, molti partigiani italiani avevano combattuto in Jugoslavia con gli jugoslavi, la minoranza italiana non venne espulsa come quella tedesca nel 1945″.
Potremmo porre un parallelo: come agli occhi di molta sinistra italiana la Jugoslavia rappresentava “un socialismo dal volto umano”, così l’Italia per i jugoslavi rappresentava “un capitalismo dal volto umano”, meno brutale e materialista di altre varianti, grazie al duplice filtro rappresentato dal solidarismo democristiano e dall’egualitarismo di matrice socialista e comunista. Nel caso dell’Italia quanto e in cosa questa visione era mero frutto delle aspirazioni degli jugoslavi e quali aspetti erano effettivamente accettabili se non promossi dai vertici del partito?

“Sono pienamente d’accordo e aggiungerei che dall’avvento del centro-sinistra in Italia anche i rapporti politici tra i due paesi decollarono. Aldo Moro, per esempio, fu un grande amico della Jugoslavia. Esistevano sicuramente due livelli: da una parte per gli jugoslavi l’Italia rappresentava l’unico esempio di capitalismo toccabile con mano – perché in Italia si andava di frequente – e, guardando al di fuori dei blocchi, un paese che con la Jugoslavia condivideva molte caratteristiche – sia positive, come il boom economico, che negative, come le contraddizioni che questo portava con sé. All’Italia ci si poteva paragonare, agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna ovviamente no. Per la leadership jugoslava la cultura di massa italiana appariva accettabile soprattutto perché era depurata di fenomeni sovversivi, di istanze brutalmente capitaliste, di un forte senso di individualismo. Gli addetti alle politiche culturali jugoslave supportarono la penetrazione del rock and roll nel paese perché credevano che rispondesse al bisogno di divertimento delle fasce giovanili e che incentivasse l’immagine della Jugoslavia come paese aperto verso i trend occidentali. Ma non amavano che i concerti rock finissero con fenomeni di ribellismo o vandalismo come nel mondo anglosassone, non amavano gli artisti che conducevano una vita dissoluta, per questo Little Tony o Adriano Celentano rappresentavano varianti più accettabili”.
Momo Kapor proprio all’inizio del suo celeberrimo “Guida alla mentalità serba” presenta l’Italia come il primo contatto che i jugoslavi avevano con “il mondo esterno” e compara l’abbondanza e la compostezza che si scopriva in Italia, “questo paradiso dei consumatori”, con la rozzezza delle abitudini e il grigiore del paese socialista. Eppure, come lei sottolinea nel libro, la stragrande maggioranza dei cittadini jugoslavi ritornavano in patria dopo la visita in Italia e in pochissimi chiedevano l’asilo politico. Come spiega questo comportamento? Forse vi era un’implicita consapevolezza tra la popolazione di aver costruito un’immagine dell’Italia fin troppo idealizzata e si preferiva tornare alle sicurezze del sistema socialista?
“Beh, innanzitutto, credo che si debba uscire da un’immagine stereotipata del blocco socialista come una prigione dalla quale tutti volevano fuggire. Esistono casi molti differenti tra loro e la Jugoslavia è uno di questi. In ogni caso dal dopoguerra alla metà degli anni ’60, diverse migliaia di cittadini jugoslavi chiesero asilo politico in Italia, non per rimanere in Italia ma per raggiungere da qui Stati Uniti, Canada o Nord Europa. Come in tutti i flussi migratori esistevano motivazioni differenti. Quelle politiche furono predominanti in genere nell’immediato dopoguerra ma dall’inizio degli anni ’50 quelle economiche assunsero un’importanza sempre maggiore. Anche secondo i contemporanei la maggior parte degli jugoslavi scappavano dalla povertà o cercavano migliori condizioni economiche e lavorative. Gradualmente, dal 1962-63 le migrazioni economiche furono liberalizzate in Jugoslavia e vennero firmati trattati bilaterali con i paesi europei bisognosi di manodopera. Da quel momento – caso unico tra i paesi socialisti – si iniziò ad andare legalmente a lavorare all’estero, soprattutto in Germania Federale e non vi fu più bisogno di scappare. A quel punto anche i numeri dei richiedenti asilo jugoslavi in Italia crollarono. Certamente l’immagine dell’Italia non era reale ma idealizzata, immaginata, era più simile alle aspettative che gli jugoslavi avevano verso il futuro e che proiettavano oltreconfine. Infatti era coltivata in questi termini da chi “assaggiava” l’Italia per poche ore a Trieste, non da chi vi viveva”.

Come evidenzia nel libro, si trattava comunque di una relazione asimmetrica: oggetto di ammirazione, gli italiani guardavano ai jugoslavi con indifferenza od opportunismo. Si è trattata solo di una relazione a senso unico o qualche elemento della cultura popolare jugoslava venne comunque assorbito dall’Italia?
“Il rapporto tra Italia e Jugoslavia fu in gran parte asimmetrico e unidirezionale, soprattutto nel periodo del quale mi occupo. Per la Jugoslavia l’Italia aveva un portato simbolico come porta d’ingresso all’Occidente e l’influenza della sua cultura pop rappresentò davvero un fenomeno di massa. Invece, la Jugoslavia affascinò un pubblico di nicchia, soprattutto sull’onda dell’interesse per l’esperimento politico jugoslavo. Successivamente la Jugoslavia ebbe i primi riconoscimenti internazionali in ambito artistico e cinematografico, alcuni prodotti culturali divennero conosciuti all’estero – come i primi film di Kusturica –, l’immagine della Jugoslavia divenne quella del “paese delle vacanze”, ma la sua cultura non arrivò mai al grande pubblico italiano. Per la Jugoslavia l’Italia era il mainstream e la Jugoslavia per l’Italia l’underground! Un discorso a parte, invece, andrebbe fatto dall’inizio degli anni ’70 per la televisione Telecapodistria in lingua italiana che riuscì a infrangere le barriere linguistiche e a diventare estremamente popolare e seguita in Italia, anche perché in quel momento rappresentava l’unica alternativa al monopolio RAI.
Ti ricordi di Ventiquattromila baci?
Nel primo film di Emir Kusturica “Ti ricordi di Dolly Bell?” la canzone “24mila baci” ricorre costantemente ad evocare anche il desiderio e la ricerca di un altrove da parte dei ragazzi protagonisti
Il libro tratta della nascita del mito italiano in Jugoslavia tra il 1955 e il 1965 Quando viene meno questo mito, ovvero quando gli jugoslavi smettono di proiettare sull’Italia le loro aspirazioni e si anche rivolgono ad altri modelli? Vi è stato un periodo o qualche episodio in cui è emersa una qualche disillusione e la rappresentazione dell’Italia è diventata più realistica?
“Non direi che il mito italiano sia mai venuto meno in Jugoslavia, ma che si trasformò. Se nel decennio in questione aveva svolto una funzione di filtro rispetto ad altri fenomeni culturali di matrice occidentale, dalla metà degli anni ’60 questi iniziarono a entrare più facilmente. Cambiò anche l’immagine della cultura di massa italiana, la modernità iniziò ad arrivare da altrove. Sempre più gli adolescenti jugoslavi ascoltarono il rock and roll anglo-americano nelle sue forme originali, saltando la mediazione italiana, sempre più la situazione divenne paragonabile, in termini di influenze culturali, a quella degli altri paesi europei”.
Questa egemonia culturale su un intero popolo quanto veniva usata dalla diplomazia ufficiale italiana in termini di soft power? E se no, per disinteresse o incomprensione di tale potenziale?
“Direi poco rispetto alle sue potenzialità. Ci furono molte iniziative della diplomazia italiana per la promozione culturale in Jugoslavia, ma queste riguardarono essenzialmente quella che potremmo definire “cultura alta”, mentre la musica leggera, la televisione, la moda non venivano percepiti come ambiti culturali in senso ampio e i prodotti culturali circolarono non tanto grazie a un supporto statale, ma grazie a mere ragioni commerciali. Non credo vi fosse disinteresse, quanto difficoltà degli addetti culturali italiani a comprendere questo potenziale, almeno nel periodo del quale mi sono occupata io e del quale ho seguito le corrispondenze. A questo riguardo gli jugoslavi furono molto più pronti a cogliere il potenziale della cultura di massa e a utilizzarlo, forse perché dall’inizio la osservavano, la temevano e la reprimevano così che alla fin fine impararono a conoscerla e a utilizzarla per il proprio soft power quando la Jugoslavia iniziò ad aprirsi verso l’esterno dall’inizio degli anni ’50”.
Lei ha vissuto per oltre tre anni in Serbia e ancora oggi la frequenta con regolarità. Se dovesse scrivere un saggio sui rapporti odierni tra cultura popolare italiana e quella serba quali aspetti evidenzierebbe?
“Innanzitutto direi che la Serbia è cambiata moltissimo dalla prima volta che ci ho messo piede. Dieci anni fa era un paese che risentiva ancora dell’isolamento del decennio precedente, ogni straniero che arrivava rappresentava una boccata d’aria, la gente aveva voglia di parlargli e ci teneva a ribaltare l’immagine negativa che del paese esisteva – o i serbi pensavano esistesse – all’esterno. Rispetto all’Italia, la gente spesso la menzionava come simbolo della maggiore mobilità goduta ai tempi della Jugoslavia, rispetto a un presente in cui (fino al 2009) ai cittadini serbi erano richiesti visti turistici per andare in ogni paese dell’area Schengen. Un refrain era quello che un tempo si andava a Trieste solo per bere un caffè espresso! Credo sia interessante il fatto che, da quando si è ricominciato a viaggiare con più frequenza – anche a Trieste – si sia iniziato a menzionare sempre più il fatto che la città adriatica non sia più la stessa di un tempo e abbia perso con la fine dello shopping jugoslavo! Oggi è rimasto quel senso di apertura ma la situazione si è normalizzata e Belgrado è tornata ad essere una grande capitale internazionale. Credo che il rapporto con l’Italia sia rimasto comunque forte e che forte sia ancora l’appeal della cultura di massa italiana, a diversi livelli della società. Quale sia l’immagine di oggi dell’Italia è difficile dirlo, non abbiamo sicuramente più il fascino che avevamo negli anni ’60 e purtroppo spesso i prodotti culturali italiani che arrivano in Serbia sono molto commerciali, ma in ogni caso iniziative di grande interesse portate avanti negli ultimi anni mi sembra abbiano avuto un’ottima risposta di pubblico”.
Il libro è frutto di lunghe ricerche di archivio ma anche del contatto con persone che hanno vissuto la temperie storica che analizza. Vi sono aneddoti che le sono stati raccontati che non ha potuto inserire in un libro scientifico ma che potrebbe riportare ai nostri lettori?
“Non prendo spesso taxi, ma quando mi capita ogni taxista mi racconta di un suo viaggio o di un suo parente in Italia! Gli aneddoti sono moltissimi, soprattutto legati allo shopping a Trieste, agli stratagemmi per non pagare i dazi o contrabbandare. Trieste era una città brulicante di turisti jugoslavi, di profughi est europei, di emigranti politici, di informatori della polizia italiana e dei diversi servizi segreti, di venditori di jeans che vivevano come boss della malavita. Nel Borgo Teresiano si potevano comprare vestiti, bambole, pezzi di ricambio per le auto, passaporti, valuta di vario tipo e pubblicazioni dell’emigrazione anti-jugoslava. Una natura di città di confine la cui memoria si è definitivamente persa, ma che alcuni stanno cercando di recuperare come l’associazione triestina Cizerouno”.
Francesca Rolandi ha conseguito un dottorato in Slavistica nel 2012 presso l’Università di Torino con una tesi sull’influenza della cultura di massa italiana in Jugoslavia, che ha ricevuto il premio Vinka Kitarovic. Ha vissuto e svolto attività di ricerca in Italia (Istituto Italiano di Studi Storici di Napoli), Serbia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Slovenia (Università di Lubiana), Austria (Centro studi sul Sud-Est Europa dell’Università di Graz). Attualmente è ricercatrice post-dottorato presso l’Università di Fiume.
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