Si impara davvero solo dagli insuccessi, perché il successo, spesso frutto del caso come il suo contrario, rischia solo di rafforzare le nostre presunzioni.
E allora, anche per quanto riguarda gli investimenti in Serbia, specialmente da parte di piccole e medie imprese, ecco un breve elenco di errori, superficialità, pregiudizi e infondati ottimismi che hanno portato imprese e imprenditori a fallire i loro progetti in Serbia.
Aprire una società in Serbia è relativamente semplice, ma poi? Proviamo almeno a non incorrere nei seguenti errori.
1. Strategia focalizzata solo sui costi
Oggi la strategia di riduzione del costo del lavoro non può essere l’unica motivazione per un investimento in Serbia. Certamente esso resta un fattore competitivo rispetto a quasi tutti i paesi d’Europa, ma, accanto ad altre ragioni per scegliere la Serbia, bisogna anche guardare più lontano. Anche il costo dell’energia, la logistica, le tasse sugli utili d’impresa e la gestione amministrativa sono minori che in altri paesi ma, ottenuti questi risparmi (davvero significativi solo sul medio-lungo periodo), si pensa davvero che essi potranno tradursi per sempre in maggiori margini? Semmai, sarebbe fondamentale chiedersi quali nuovi clienti, quali nuovi mercati, quali nuovi prodotti, quale migliore organizzazione vogliamo sviluppare grazie al nostro investimento in Serbia e ai vantaggi che ci offre. Finquando ci si limita ai costi, si avrà un atteggiamento di retroguardia, per cui facilmente saremo sorpassati da imprese con soluzioni ancora più economiche e una strategia più evoluta.
2. Outsourcing “interno”
Ancora oggi vengo contattato da piccole e medie imprese che vorrebbero trasferire in Serbia solo fasi semplici e labour-intensive del processo produttivo. Da un punto di vista fiscale si tratta del regime di perfezionamento passivo, che consente di esportare le materie prime fuori dall’Unione europea poi di re-importare i prodotti semi-lavorati o finiti, pagando le tasse solo ed esclusivamente sul “valore aggiunto manifatturiero”. Chiamo questo approccio “contoterzismo interno”, uno degli errori più banali e ricorrenti per le piccole imprese. Se non si può contare su grandi volumi di produzione, mettere in piedi un progetto di investimento, spendere soldi in viaggi, consulenze, capannoni, selezione del personale, spedizioni e così via per mandare in Serbia prodotti semifiniti da assemblare o rifinire e poi rispedirli indietro dopo qualche giorno significa bruciare in logistica e costi doganali quanto ha fatto risparmiare la struttura in Serbia. E spesso andando poi in perdita.
Ecco perché consiglio sempre di iniziare subito a produrre in Serbia almeno alcune linee di prodotti finiti o di servizi completi: solo così si può davvero testare il paese e raggiungere un vantaggio competitivo reale.
3. Passaggio generazionale
Spesso l’imprenditore immagina la fabbrichetta in Serbia come una sorta di playground manageriale per uno dei suoi figli. E dal suo punto di vista l’idea non sarebbe mica sbagliata: far crescere le capacità direttive dell’erede designato in un paese tutt’altro che pericoloso, con ritmi non ossessivi, all’estero ma non lontano dall’Italia, nella ditta di famiglia ma non dentro gli spazi presidiati dal padre e, da non sottovalutare, con una vita sociale molto viva e donne molto belle. Ma il figlio si chiede perché dovrebbe lasciare gli amici e le comodità con cui è stato cresciuto per affrontare tutte le complessità di una start up, spesso ubicata in un paesino della provincia serba, affrontando una lingua slava e scritta in cirillico negli atti ufficiali (e magari con una sua conoscenza dell’inglese non ideale), con collaboratori senza l’esperienza di quelli che da sempre operano nell’impresa di famiglia e dovendo pure affrontare ragazze con una mentalità piuttosto diversa da quella di casa sua.
Così l’imprenditore si trova nel dilemma se dover seguire con maggiore continuità un investimento che aveva pianificato diversamente, oppure cercare qualcuno di cui avere fiducia “come uno di casa”. Se la ricerca non va a buon fine, spesso i tempi del progetto si allungano e, se ancora nelle fasi iniziali, sovente viene abbandonato.
4. Carenza manageriale
Arriviamo così a uno dei punti nodali di ogni progetto di internazionalizzazione di una piccola o media impresa italiana: i limiti manageriali. Le imprese italiane, anche di grandi dimensioni, sono spesso centrate sulla figura del fondatore-titolare che ha l’ultima parola in ogni ambito aziendale, improvvisandosi di volta in volta direttore finanza (“ho un amico in banca”), direttore delle risorse umane (“devo scegliere io i collaboratori e ho letto anche un libro a riguardo”), direttore marketing (“mi piace questa idea e il figlio di mio cugino fa i siti web”), ancor di più direttore dello sviluppo internazionale (“negozio io con i forestieri e poi stacco un po’ andando all’estero”).E invece il più delle volte le piccole e medie imprese rinunciano a internazionalizzarsi non per carenza di risorse economiche, ma per l’impossibilità di trovare o voler delegare il progetto a un manager a tempo pieno che non sia parte integrante della “famiglia”. Così il progetto prosegue a singhiozzi, solo in base alle trasferte che può pianificare l’imprenditore nella sua agenda strapiena, senza continuità. Tanti investimenti di successo in Serbia sono invece proprio il risultato della lungimiranza di chi ha selezionato trentenni preparati, ambiziosi e affidabili, motivati a trasferirsi stabilmente in Serbia. E li ha pagati adeguatamente.
5. Internazionalizzazione come evoluzione organizzativa
Internazionalizzarsi non significa aprire una “fabbricchetta” all’estero. La scelta di investire all’estero implica una completa riorganizzazione della casa madre, non solo in termini di funzioni, di investimenti e di personale, ma soprattutto in termini di mentalità e di attitudine al mercato. Quello che funzionava nella ditta di famiglia, sita nella cittadina dove si è sempre vissuto, è improbabile che funzionerà anche in un altro paese. Ed uno dei dilemmi diventa come mantenere quella proattiva flessibilità, tutta italiana, nel coordinamento interno come nelle risposte alle esigenze di clienti e fornitori, in un contesto dove la lingua e soprattutto la mentalità sono diversi, gli operai non intendono fare straordinari partendo da un netto di un paio di euro, la normativa locale è tutta da capire, i fornitori tutti da testare. Se si pretende di aprire all’estero un clone della struttura italiana si andrà incontro a problemi sempre più complicati. Internazionalizzarsi significa scegliere di intraprendere un cambiamento radicale, spesso per sopravvivere.
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6. Informazioni imprecise o non aggiornate
Il web pullula di siti di pseudoconsulenti che garantiscono il 10% di interessi bancari in Serbia o ben 9.000 euro a fondo perduto per ogni posto di lavoro creato nel paese balcanico. Il fenomeno sarebbe da ascrivere alla cialtronaggine di questi pseudoesperti che sparano vecchi fattoidi sulla Serbia dalle loro case di Garbagnate Milanese o Lercara Friddi, se non arrivassero poi imprenditori, anche solidi, pretendendo che la Serbia moltiplichi i loro denari come nel campo dei miracoli di collodiana memoria.
Quando nel 2013 ho lanciato il Serbian Monitor è stato perché non solo mancavano fonti in italiano aggiornate quotidianamente, ma soprattutto perché il passaparola tra italiani di notizie e informazioni sul quadro giuridico ed economico del paese sembrava il gioco del telefono che si faceva all’asilo, quando si partiva con la parola “casa” e all’orecchio del destinatario arrivava la parola “cacca”.
7. O sovvenzioni o morte!
Anni fa un imprenditore italiano, a fronte dell’offerta della Agenzia di Sviluppo della Serbia di sovvenzionare il suo progetto con un milione di euro, contestò il fatto che lui non era da meno della Fiat (solo oltre un centinaio di miliardi di euro di fatturato in meno,) e che dunque pretendeva dalla Serbia almeno il 50% dell’investimento previsto, ovvero 12 milioni di euro di sovvenzioni, argomentando: “D’altra parte si è fatta sotto anche la Turchia, che offre il 50% a fondo perduto”. A un controllo veloce il dato apparve vero, ma solo per gli investimenti in Kurdistan turco, da un punto di vista logistico leggermente più disagevole della Serbia. Senza quei 12 milioni, preferì investire in Italia.
La politica di sovvenzioni a pioggia (oramai tramontata) che ha caratterizzato i primi anni Duemila non solo ha distorto le attese degli imprenditori, ma anche svalutato le oggettive qualità dei lavoratori serbi, attraendo, accanto a imprese serie, non pochi im-Prenditori di professione.
8. Budget non adeguato
L’imprenditore non può fare il suo lavoro senza una buona dose di positività, ma a volte si esagera. Che la Serbia abbia dei fattori produttivi dal costo molto competitivo non implica che si possa comprare mezzo paese con un milione di euro, a rate e anche a tasso zero! Spesso il budget non è adeguato non perché l’impresa o l’imprenditore non abbia le risorse adeguate, ma semplicemente perché essi si sono affidati appunto a fonti di informazione che hanno rappresentato il paese come una specie di Eldorado abitato da buoni selvaggi pronti a scambiare oro in cambio di perline.
Ad esempio, molti che sognano un investimento in Serbia si stupiscono che la ricerca di un capannone sia più laboriosa e l’affitto più oneroso che in Italia (per un banale motivo di scarsità relativa) e, a fronte di questi riscontri inaspettati, perdono ottime occasioni continuando a cercare cocciutamente l’occasione ideale che non si manifesterà mai.
9. Economico non è sinonimo di semplice
Se molti fattori produttivi sono significativamente meno costosi che in altre nazioni, questo non significa che non sia necessario uno sforzo per capire le dinamiche sociali ed economiche e il quadro normativo del paese. E invece spesso non si riesce a capire che uno dei “costi” di una corretta internazionalizzazione non è di tipo monetario, ma richiede tempo e focus per entrare in logiche burocratiche, sociali ed economiche diverse rispetto a quelle di origine.
Affidarsi a consulenti seri, preparati e radicati nel paese non è un costo su cui lesinare, ma un investimento in formazione personale che si ripaga rapidamente al progredire dell’investimento.
10. La Serbia come ultima spiaggia?
La sofferenza economica e sociale causata dalla pandemia Covid19 sta spingendo molti piccoli imprenditori a valutare di trasferirsi in Serbia. Forse è una scelta giusta, ma forse è anche troppo tardi. Considerare la Serbia come l’ultima spiaggia, magari quando la situazione di partenza è irrimediabilmente compromessa, non è un progetto, ma una fuga, e come tutte le fughe implica un dippiù di ansia, di improvvisazione, anche di confusione tra le necessità urgenti e le ambizioni che si vorrebbe realizzare.
Se non si era preparati ad andare all’estero prima della crisi, ora è diventato ancora più complicato. Senza un progetto chiaramente definito negli obiettivi e nelle risorse necessarie, sarebbe meglio allora rinunciare a sognare una fuga che verosimilmente si tradurrà solo in altro stress e altri costi senza costrutto.
Si può trarre una conclusione generale da queste considerazioni? In realtà no: ciascuno vedrà alcuni punti meglio adattarsi alla sua situazione, alle sue ambizioni, come anche ai vincoli e agli obiettivi di cui deve tenere conto.
Anche fare generalizzazioni su un paese a prima vista “facile” come la Serbia, senza analizzare i dettagli del progetto di investimento, sarebbe, come sempre accade, un ulteriore errore.
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