Oltre 140 le imprese italiane che parteciperanno al Forum economico e scientifico tra Italia e Serbia si terrà martedì 21 e mercoledì 22 a Belgrado attorno ai tre i focus tematici: agri-tech, infrastrutture e transizione ecologica. Ma l’obiettivo di un salto di qualità dei rapporti tra i due paesi richiede, oltre agli sforzi diplomatici, un cambio di atteggiamento da parte del mondo delle imprese.
Negli ultimi due decenni, tranne alcune rare eccezioni, gli investimenti industriali italiani in Serbia hanno per lo più insediato nel paese balcanico linee produttive per semilavorati o componenti rifatturati alla casa madre, in altri casi hanno trasferito produzioni mature e a basso margine, che richiedevano personale con basse qualifiche e dunque con contenute richieste salariali. Le società aperte in Serbia erano e sono sovente considerate una sorta di società satelliti, dipendenti dall’Italia per ogni decisione strategica, meri centri di trasformazione, spesso senza autonomia in termini di organizzazione, di indirizzi di vendita, meno ancora in tema di investimenti o di gestione finanziaria.
Per questo motivo, raramente sono stati ingaggiati manager, italiani o no, con una specifica preparazione: molto spesso invece venivano individuate persone di fiducia o “di famiglia”, che potessero rassicurare l’investitore che “la cassa” fosse in mani fidate, per quanto meno capaci di autonomia o di apportare miglioramenti ai processi o innovazioni. Che poi anche le persone “di famiglia” tradissero la fiducia dell’imprenditore, beh, questo fa parte della ricorrente tragicommedia familistica all’italiana.
Ma torniamo al nostro ragionamento. In questa visione “cost-based”, l’attenzione di imprenditori e direttori è centrata sui costi e sul prodotto, e molto meno a studiare lo scenario competitivo, le trasformazioni del contesto sociale ed economico, le innovazioni che l’impianto in Serbia potrebbe elaborare. E, a onor del vero, bisogna ricordare che in una situazione stazionaria di un paese a bassa crescita e ad alta disoccupazione come è stata la Serbia tra il 2006 e il 2015, questo modello ha portato significativi vantaggi economici a molti imprenditori.
Per tanti versi, l’imprenditoria italiana in Serbia è stata però colta di sorpresa dalla crescita di un paese che in dieci anni (tra 2015 e 2021) ha incrementato il suo Prodotto Interno Lordo del 50%, passando da 40 a oltre 60 miliardi di euro, e che ha pressoché raddoppiato il salario minimo nazionale, passato tra il 2016 e il 2023 da 255 a 490 dollari mensili. Numeri certamente ancora contenuti e salari ancora allettanti per chi dai paesi più sviluppati cerca risparmi sul lato del costo del lavoro, ma già indici di una tendenza che, negli ultimi anni, si è semmai rafforzata. Ancora maggior miopia vi è stata nel non cogliere che la leadership politica del paese puntava con sempre maggior convinzione a una trasformazione del paese basata non più sulle produzioni manifatturiere a basso costo, ma su alcuni settori volano per una rapida crescita, quale le costruzioni e le infrastrutture, l’Information Technology, le industrie ad alta tecnologia, le industrie creative, non ultima l’ambizione di rifondare un settore primario ancora frammentato, con bassi investimenti e basse rese, e integrare le filiere dell’agroalimentare per proporre sui mercati internazionali più prodotti finiti e meno materie prime.
I casi di chiusura o di ridimensionamento di alcuni investimenti italiani degli ultimi anni nascono in sostanza dalla incapacità di prevedere o di reagire a questo cambiamento di scenario. La stessa chiusura abrupta dell’impianto Geox a Vranje, per le sue modalità e l’indifferenza dimostrata verso il suo impatto sociale il punto più basso dell’imprenditoria italiana in Serbia, ha esemplificato questa incapacità: il presupposto errato di poter fruire continuatamente dei sussidi statali, le pretese estreme su una forza lavoro inquadrata al minimo, l’incapacità o l’impossibilità di adattare l’impianto e il business plan, la fuga in Albania a rincorrere un costo del lavoro più basso.
Un nuovo inizio?
Il Business and Science Forum Italia-Serbia che si terrà a Belgrado il 21 e 22 marzo può rappresentare un nuovo inizio nei rapporti industriali e scientifici tra i due paesi. L’Italia è chiamata a dimostrare di aver compreso le nuove attese della Serbia verso l’Italia. Da parte sua la Serbia può offrire nuove opportunità che si aggiungono ad alcuni tradizionali vantaggi di costo come la forza lavoro e la relativa legislazione, l’energia, la logistica, la fiscalità, l’amministrazione pubblica indirizzata verso la semplificazione e la digitalizzazione. Nuovi vantaggi competitivi possono essere sviluppati legandosi alla crescita di alcuni settori di punta come le soluzioni digitali e informatiche (che nel 2022 hanno totalizzato un export per oltre 2,6 miliardi di euro), alla necessaria evoluzione del settore agricolo come alla transizione ecologica e alla completa innervazione delle infrastrutture in un territorio strategico per le relazioni tra Mediterraneo, Nord Europa e paesi del vicino e dell’estremo Oriente.
Ma oltre ai tre ambiti tematici proposti dal Business Forum vi sono altri settori su cui la Serbia ha iniziato a puntare in maniera strategica per sostenere il suo sviluppo. Le industrie creative intendono essere il terreno di incontro tra la creatività di tipo umanistico ed artistico e l’Information Technology: in settori come la realtà aumentata, le post produzioni audiovisive, il gaming la Serbia vanta già imprese di livello mondiale. La meccatronica è un altro ambito che suscita fortissimo interesse per la sua capacità di innovare il tessuto industriale serbo e di fruire delle competenze dell’ICT nazionale.
Si assiste poi a importanti investimenti statali sulle biotecnologie e sull’Intelligenza Artificiale applicata alla medicina. Ne sono prova il Campus BIO4 in costruzione, un complesso di ricerca multidisciplinare dedicato alla convergenza tra scienze e tecnologie biologiche e ICT, come anche la costituzione del Centro per la Quarta Rivoluzione Industriale focalizzato sulle bioingegneria, le biotecnologia e l’applicazione dell’Intelligenza artificiale alla salute.
Ma non si tratta solo di elencare dei promettenti settori di collaborazione e sviluppo congiunto tra i due paesi. Belgrado è oggi una città molto internazionale e sempre più multiculturale e multietnica: all’afflusso di non meno di 100.000 russi a seguito dell’aggressione dell’Ucraina, si aggiungono comunità asiatiche in forte crescita che vedono nella capitale serba un punto di snodo per seguire i loro affari internazionali fruendo dei vantaggi socio-culturali, economici e anche climatici di un paese europeo. La Serbia nel suo complesso è anche vista come una meta da tanti giovani asiatici, africani e sudamericani, professionalizzati e meno, desiderosi di vivere e lavorare in un contesto europeo senza i filtri all’immigrazione posti dall’Unione europea. Questi cambiamenti socio-economici e demografici stanno aprendo molteplici opportunità per le piccole e medie imprese italiane che vogliono internazionalizzarsi.
Eppure, per cogliere davvero le nuove opportunità di questo cambiamento di scenario le imprese italiane dovrebbero vedere i loro investimenti in Serbia sotto una luce diversa.
Da essere considerate semplici succursali, le controllate serbe potrebbero diventare le realtà tramite le quali gestire il processo di internazionalizzazione dell’intero gruppo, grazie alla vicinanza di molti mercati, la maggiore accessibilità a personale multilingue e professionisti altamente qualificati, reti logistiche consolidate e in via di ulteriore sviluppo. Da imprese di subfornitura interna, le controllate serbe potrebbero diventare centri di elaborazione di innovazione organizzativa, di prodotto e di processo, grazie ai minori costi che il paese garantisce se si vogliono affrontare percorsi inesplorati. Da centri a basso costo cui delegare produzioni a basso valore aggiunto, le controllate serbe potrebbero dialogare con start-up e nuovi imprenditori locali per assorbire e testare nuove idee e soluzioni, foss’anche per trovare nuove modalità di risparmio sui costi.
Un nuovo modello di operatività delle imprese italiane in Serbia implicherà anche il superamento di certe reciproche pigrizie mentali, l’adesione al tessuto sociale e imprenditoriale più innovativo, il monitoraggio delle trasformazioni in corso per coglierne le opportunità, così da comprendere meglio le reciproche esigenze e recuperare anche un legame geopoliticamente più pregnante in questa complessa fase storica.
Da molti anni Italia e Serbia non si trovavano nella situazione di aver bisogno l’una dell’altra, in maniera per tanti versi complementare: dalle loro rispettive reti e proiezioni diplomatiche alla necessità di ripensare i propri indirizzi economici. Come spesso capita, le migliori opportunità nascono dalle necessità. E dalle capacità dei singoli di vederle e di coglierle.
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Interessante esposizione sig. Carraro. Un tema poco tenuto in considerazione, gli autotrasportatori serbi pagano tutt’oggi il c.d. “diritto fisso” , una tassa di 1.29 euro \ ton che gli albanesi sono riusciti a farsi annullare. Questo importo, di fatto, grava sulle merci in interscambio tra i due Paesi, è evidente che essendo un elemento di costo del trasporto lo stesso poi viene caricato sulle merci, oltretutto è discriminatorio in quanto i mezzi UE (p.e. sloveni o croati) che trasportano merci tra Serbia ed Italia o viceversa, e non sono pochi, non ne sono gravati. L’Albania qualche anno fa ha fatto valere ila condizione di contrasto tra questa tassa e quanto previsto nell’Accordo con l’UE.
L’accordo UE-Serbia, al par. 1 dell’art. 61 prevede ” …l’applicazione del principio di non discriminazione e la progressiva armonizzazione della normativa serba in materia di trasporti con quella della Comunità” ciò è in contrasto con questa tassa, ripeto, grava indirettamente sull’interscambio tra Italia e Serbia, della quale siamo uno principali partner commerciali.
Se qualcuno ha interesse ad approfondire il tema mi può contattare,
Cordiali saluti
Andrea De Monte