“Figlio di nessuno”: la ragione di un “selvatico”

Dopo aver ottenuto il premio il “Vincitore” alla 43esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Belgrado come miglior film all’interno del programma competitivo della cinematografia serba, “Figlio di nessuno” è stato presentato nei cinema fino alla settimana scorsa e per tutto il tempo è stato uno dei temi principali su cui i giornali scrivevano con orgoglio.

Prima che il pubblico serbo in Serbia avesse l’opportunità di vederlo, questo film aveva avuto la sua anteprima mondiale il 4 Settembre 2014, quando è stato presentato al Festival di Venezia all’interno del programma Settimana Internazionale della Critica, e ha vinto tre premi:  Il premio del pubblico “RaroVideo” per il miglior film della Settimana della Critica, il “Premio Fipresci” per il miglior film delle sezioni Orizzonti e Settimana della Critica ed il “Premio Fedeora” per la migliore sceneggiatura. Al Festival Internazionale del Film di Roma, questo progetto cinematografico ha vinto il premio per il miglior progetto europeo, mentre al Festival Go East a Wiesbaden “Figlio di nessuno“ ha vinto Il Gran premio della Giuria per il miglior film. Il film ha partecipato a 27 festival stranieri e ha vinto 15 premi.

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 Ma cosa rende questo film così speciale?  

Oltre al fatto che il film d’esordio di regista Vuk Nicije_deteRšumović è basato su una vicenda reale, e oltre al fatto che il piccolo protagonista Denis Murić è casualmente  arrivato al provino perché accompagnava un suo amico che  si era presentato all’ audizione, il film possiede una nuova energia, perché una storia difficile viene raccontata, per quanto possibile, in una maniera entusiasta. Infatti, dalla  sua moglie giornalista, Vuk Ršumović ha sentito la vera storia di un ragazzo cresciuto fra i lupi che poi alla fine degli anni ’80,  prima dello scoppio della guerra e della disgregazione della ex Jugoslavia, viene ritrovato dai cacciatori al confine tra Bosnia, Serbia e Montenegro. Il regista ha poi deciso di visitare l’orfanotrofio che aveva ospitato Haris e di costruire una metafora sul destino della gente jugoslava, trasformando la storia in un simbolo di apparteenza. Questo bambino, strappato alla vita in natura negli anni in cui l’identità della gente jugoslava si stava spezzando in frantumi, non si sa a chi appartiene. Tuttavia, la decisione burocratica è stata quella di dargli un nome musulmano Haris e il bambino viene inviato nell’orfanotrofio di Belgrado.

Piano piano il piccolo Haris diventa una metafora della frammentata società jugoslava che nasce negli anni ’80 del secolo scorso per svilupparsi poi negli anni ’90 e diventa un sinonimo di erosione del sistema dei valori della società in genere. II professore presso la Facoltà di Scienze dell’Organizzazione di Belgrado Slobodan Miladinovic in una delle sue opere ha scritto che “in tempi turbolenti, è facile perdere l’identità sociale, mentre i responsabili per le proprie frustrazioni erano spesso gli altri. E’ stato sufficiente puntare il dito contro qualcuno e togliersi la colpa per tutto ciò che nel passato è accaduto in questa regione”.

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Il bambino “selvatico” non aveva né identità sociale né quella nazionale, lui non parla ma ringhia, morde ed è diverso. Ora si dovrebbe trovare il “colpevole” di questa diversità e non appartenenza. Per  poter accettare la situazione esistente bisogna inquadrarla in una prospettiva razionale e all’inizio del film in un istituto in Bosnia dicono che la sua città natale può essere Belgrado, ma la decisione burocratica è stata diversa e nell’ estratto del registro del bambino la sua origine rimane la Bosnia. La razionalizzazione è ora diventata manipolazione demagogica e il bambino “selvatico” è collocato in un “quadro razionale”. Ora non  è solo un bambino, ma “Haris dalla Bosnia nell’orfanotrofio serbo”. La gerarchia di identità esiste, è ora tra i bambini serbi lui è in minoranza, non è socializzato e questa  gerarchia umana gli è estranea. Non la capisce, perché per lui c’è ancora solo quella in natura, quella fra i lupi.

In quei tempi la diversità nazionale è stata spesso  Nicije-detela causa di provocazioni, di aggressioni verbali come fisiche. Per i bambini dell’orfanotrofio Haris è un selvatico ed è divertente perché non è come gli altri. L’unico che l’accetta è Žika, è grazie a lui che Haris comincia a socializzare, comincia a parlare, a frequentare la scuola e in soli tre mesi riesce a migliorare notevolmente e anche a finire l’anno scolastico, ma gli insulti ancora non smettono. La cosa che rende quest’orfanotrofio  più assurdo è il fatto che i bambini non si rendono conto che prendendo in giro il piccolo Haris prendono i giro anche sé stessi. Sono tutti il riflesso allo specchio dell’erosione della società e del sistema sociale frammentato, ma non ne sono consapevoli, perché sono i bambini innocenti che sono diventati  vittime di quest’assurdità. Forse l’unico che che ne è consapevole è Žika, che per la seconda volta viene abbandonato da suo padre. Ma il momento cruciale che ha deciso il suo destino non è stato il fatto che non ha potuto ritornare all’orfanotrofio. Il momento cruciale è stato quando si rese conto che viene lasciato anche da Haris. Per poter accettare l’inaccettabile Žika decide di suicidarsi e di superare il senso di inutilità della vita e della propria esistenza.

nicije-dete2La famiglia è la cellula fondamentale di ogni sistema sociale, ma questi bambini sono soli e abbandonati . L’unica differenza tra loro e Haris è il fatto che loro hanno un’identità sociale e quella nazionale,  sufficiente per essere membro di un gruppo, sufficiente per poter collocarsi in un quadro “razionale”, ma non basta per rendersi conto che tutti sono solo dei bambini e che sono tutti uguali. E come culmine di questa insensatezza esplode la guerra in Bosnia, la guerra alla quale Haris “appartiene” e ora deve sparare,  ma è  rumoroso e innaturale e lui tenendo il fucile chiude le orecchie e gli occhi. Non può capire che ora che ha imparato a parlare la gente non usa le parole ma sta discutendo con i fucili in mano. E quindi, come  una”persona razionale” dovrebbe agire irrazionalmente in conformità con l’ambiente di guerra.

Questo tema trattato da Vuk Ršumović, non è 510870_nicije-dete-plakat_ffrisolto quando alla fine del film si sono accese le luci nei cinema a Venezia, a Belgrado, a Zagabria o a Cairo. Questo è un problema che esiste tutt’oggi. La crisi di identità è ancora uno dei temi attuali presenti nei media della regione. Ancora oggi si punta il dito contro l’altro per poter denunciarlo per qualcosa che nella sua base praticamente non ha alcun senso. Ecco cos’è l’appartenenza. Si tratta di gruppi che nel passato durante i conflitti feroci hanno perso i figli, i genitori e sé stessi. La domanda che questa storia ci pone è quanto in realtà gli individui sono pronti a “socializzare” e quanto sono pronti alla tolleranza, all’accettazione della diversità e, soprattutto, alla riconciliazione con gli altri e con se stessi. In realtà, nessuno era né buono né cattivo e tutti siamo stati uomini.  Questo messaggio ci viene inviato da Haris alla fine del film, quando nel mezzo della guerra in Bosnia, ritornando alla natura, ritorna a sé stesso, perché sia bosniaco, serbo, croato o  cinese, è un bambino, è un essere degno di vivere ricordandoci che la natura è l’unica via di uscita.

 

1228886_Vuk_Rsumovic_19Vuk Ršumović è nato a Belgrado nel 1975. Ha studiato cinema, teatro, televisione e radio alla Facoltà di Arti Drammatiche dell’Università di Belgrado. Ha scritto sceneggiature per serie TV, cortometraggi, animazioni e documentari. È inoltre attivo come autore di programmi televisivi. Nel 2007 ha fondato la sua casa di produzione, BaBoon Production. Oltre al suo impegno nel cinema e per la televisione, collabora con i principali teatri serbi. Il figlio di nesuno è la sua opera prima.

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