Cosa attende la Serbia sul suo cammino europeo?

La principale sfida politica che attende Belgrado nel suo percorso di integrazione europea è la normalizzazione dei rapporti con Pristina.

Con la prima conferenza intergovernativa tra Serbia e UE, sono ufficialmente iniziati i negoziati di adesione; l’ambizione del Governo è quella di concludere il processo tra il 2018 e il 2020. Le riforme richieste toccano temi delicati, come i dossier sui servizi segreti, il commercio degli OGM, i diritti della popolazione LGBT e gli accordi energetici ed economici con i Paesi che non sono membri UE.

La questione Kosovo sarà affrontata nel capitolo 35 e, sebbene il Quadro negoziale non sia stato reso noto, per quanto si sa il processo di normalizzazione dovrebbe essere decretato “documento giuridicamente vincolante”; il che, stando alle spiegazioni giunte da Bruxelles e da alcuni Stati membri di forte influenza, non comporterebbe comunque l’obbligo per la Serbia di riconoscere l’indipendenza del Kosovo. L’importanza simbolica della questione è confermata dalla scelta di porre il capitolo 35 come primo argomento di discussione già il giorno seguente la prima conferenza intergovernativa: sarà già questa l’occasione per capire cosa intendono le due parti in campo per “normalizzazione dei rapporti”.

Oltre al 35, decisivi saranno anche i capitoli negoziali 23 (sulla Giustizia e i diritti fondamentali) e 24 (sulla Giustizia, la libertà e la sicurezza), che pongono di fatto le basi per tutte le altre riforme di carattere sociale ed economico. Tanja Miscevic, in un’intervista all’agenzia Tanjug prima della fine del 2013, aveva dichiarato che la Serbia vorrebbe concludere gli screening per i capitoli citati entro la fine del 2014; d’altra parte, la capa della commissione serba per i negoziati ha ricordato che – almeno per ora – si è ben lontani dall’ottenere questo risultato, anche perché  quest’anno si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, il che comporterà nuove commissioni e il rallentamento dei lavori. In ogni caso, il piano dei negoziati prevede che i 50 screening che attendono la Serbia siano conclusi entro marzo 2015.

Per quanto riguarda i costi del processo di integrazione, dati certi non li ha nemmeno il Governo. Finora gli euroscettici hanno speculato non solo sulle questioni politiche (in primis quella del Kosovo), ma anche sul prezzo che dovrà pagare lo Stato, che alla fine del percorso – stando alle loro parole – si troverà in perdita. La risposta logica di chi è a favore dell’integrazione è che nessun altro Paese si è trovato in perdita a causa del processo di adesione e che l’Europa non ha alcun interesse a ricevere un nuovo membro in difficoltà finanziarie. Quest’anno saranno calcolati i costi esatti del processo: in ogni caso una parte delle spese sarà sostenuta dallo Stato in conformità con le proprie possibilità e il resto sarà coperto da finanziamenti UE.

Un’altra questione controversa riguarda la sicurezza e, in particolare, l’adesione alla NATO. Anche qui gli euroscettici sostengono che l’Europa richiederà in modo non ufficiale alla Serbia di entrare a far parte dell’alleanza atlantica. Il Governo sembra intenzionato a mantenere la propria posizione di neutralità e a limitarsi – come fatto finora – ad aderire al programma “Partenariato per la pace”. I fautori dell’integrazione, da parte loro, portano l’esempio dell’Austria (che non fa parte della NATO) e ricordano che nessun paese dell’ex Cortina di ferro è entrato nell’alleanza militare dei Paesi occidentali.

(Tanjug, 21.01.2014)

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