Se esiste una tesi sempreverde nel dibattito politico internazionale, è quella secondo cui qualsiasi problema affligga l’Europa sud-orientale, la creazione di nuovi confini ne sarà sicuramente la soluzione.
In questo senso, la proposta più recente viene da John R. Schindler, editorialista per Observer e funzionario dell’intelligence americana. Il pezzo di Schindler è interessante solo in quanto innesta un concetto del 19° secolo nel quadro geopolitico del 21° secolo.
Ovvero, l’autore sostiene che la comunità internazionale dovrebbe suddividere i Balcani per stabilire nuovi stati nazionali mono-etnici, ma questa volta per verificare l’influenza russa nella regione.
Schindler non spiega mai del tutto come e perché nuovi bantustan etnici nei Balcani frenerebbero le incursioni russe nella regione. Se non altro, egli fa eco ai popolari tropi del Cremlino circa la necessità di tornare alla politica delle grandi potenze suggerendo che “noi [vale a dire gli Stati Uniti] trattiamo il Cremlino come un partner a pieno titolo in tutti i cambiamenti territoriali nell’Europa sud-orientale. Questo ricorderà una versione aggiornata del Congresso di Berlino del 1878”.
Dopo tutto, i nazionalisti dei Balcani con fantasie irredentiste, il pubblico principale delle macchinazioni di Schindler, sono ben noti per il loro ragionato approccio alla geopolitica. Di conseguenza, Schindler ci assicura che anche “la gente del posto” verrà consultata su come Stati Uniti e Russia dovrebbero procedere alla ri-frammentazione dei Balcani.
Bosnia-Erzegovina? Si tratta di una “pseudo-stato sgangherato”, ma l’Occidente consulterà la sua gente quanto ne amputerà la metà per fonderla con la Serbia.
Macedonia? Creare una “Grande Albania” con grandi blocchi del suo territorio, ma nel frattempo consultando, sempre consultando.
La Serbia stessa otterrà il diritto all’ultima parola su quanto accadrà alla provincia di Vojvodina e alla regione di Sandžak, presumibilmente come un gesto di buona volontà a Mosca.
Il resto della regione non otterrà presumibilmente un tale diritto.
Se tutto questo suona sospettosamente familiare (e assurdo) è perché il pezzo di Schindler è essenzialmente una riscrittura del pezzo Timothy Less pubblicato su Foreign Affairs nel dicembre scorso. Vi sono presenti tutti gli elementi: partizionare la Macedonia, la dissoluzione della Bosnia, riorganizzare Albania e Serbia.
Spiritualmente, ovviamente, entrambi gli scrittori sono in debito con Balkan Ghosts, l’influente libro di Robert D. Kaplan del 1993, che rese popolare la linea “antichi odi etnici” per spiegare tutti gli eventi in Europa sud-orientale da tempo immemorabile.
E, come Kaplan e Less, Schindler non è uno che va ad impantanarsi nei dettagli della storia o dell’attualità. Nella sua linea temporale l’Albania è già uno Stato membro dell’UE (non lo è), la Vojvodina ha ottenuto improvvisamente l'”autonomia” nel 2008 (“magari” è successo nel 1974), e la Serbia, paese candidato all’adesione all’UE in costante apertura di nuovi capitoli, è progressivamente “isolata” dall’ovest (astronomicamente lontano dalla verità). Né v’è alcuna riflessione su come una regione con un tasso medio di disoccupazione del 21% (e quasi il 50% tra i giovani) potrebbe evitare la quasi certa catastrofe economica che seguirebbe un’ingegneria sociale di questo tipo.
Ma, al di là di economia, è importante mantenere il quadro in mente: l’ultima volta che tale schema è stato testato, il risultato è stato un decennio di guerra, circa 150.000 morti, lo spostamento di milioni di persone, e le peggiori atrocità in Europa dalla seconda guerra mondiale. Né Schindler né Less si concentrano nell’illustrare il motivo per cui le loro proposte non dovrebbero far precipitare l’area nello stesso orrore.
Eppure, la situazione nella ex Jugoslavia, ed Europa sud-orientale più in generale, non appare stabile. Come ho sottolineato lo scorso anno per il Consiglio europeo per le relazioni estere, la regione è in una fase di deriva accelerata verso l’autoritarismo. La crisi che affligge i Balcani, allora, non è una carenza di stati-nazione mono-etnica; si tratta di una crisi di governo e di una mancanza di democrazia sostanziale.
Infatti, la mono-etnia ha in sé ha poca o nessuna relazione con la stabilità politica e con lo stato di diritto; basti guardare all’arretramento democratico nell’etnicamente omogenea Europa centrale, o al clima autocratico nell’entità serba in Bosnia, la cui unione ad una sempre più illiberale Serbia Schindler propone.
Dopo quasi tre decenni di presenza internazionale nella regione, gli Stati balcanici hanno in apparenza tutti i crismi della democrazia parlamentare, ma con solo alcune delle norme sostanziali della società autenticamente liberale. Parte della ragione di questo è da individuare nel regresso nell’assistenza significativa alla democrazia da parte degli Stati Uniti a partire almeno dal 2006, e nella perniciosa insistenza dell’UE sulla “stabilità” (piuttosto che sulla democratizzazione) e nel vuoto conseguente. Quest’ultima in particolare è una politica che ha contribuito a rafforzare i leader illiberali in tutta la regione.
L’altra parte della storia è locale. A differenza del resto dell’Europa orientale, i Balcani occidentali non hanno mai vissuto un loro 1989. In effetti, è stato proprio per evitare tali rivoluzioni democratiche (e la continua agitazione della società civile nell’ex blocco orientale) che gli elementi più conservatori e reazionari del vecchio regime jugoslavo, a Belgrado, orchestrarono la dissoluzione di quello Stato a favore di una “Grande Serbia”. Giacchè questi architetti del caos hanno invocato narrazioni etniche per governare la fine della guerra fredda, non fu più che un gioco di prestigio preservarne il potere. E molte di queste élite, come in Montenegro, sono oggi ancora al loro posto.
Con gran parte del mondo democratico attanagliato dal fervore reazionario nazionalista, ora non è tempo di inventare problemi nei Balcani. Al contrario, gli Stati Uniti e l’Unione europea farebbe bene a re-investire i loro muscoli diplomatici nel supportare gli sforzi dei veri attori democratici locali, come quelli degli attivisti che sono dietro la “Rivoluzione colorata” della Macedonia e gli studenti che protestano contro il governo di un solo uomo in Serbia. Qui è dove emergeranno nuove idee, nuovi leader, e nuove opzioni.
Non ci sono scorciatoie per la democrazia. Se l’Occidente vuole la stabilità duratura nei Balcani non può ottenerla ripartendo le comunità politiche illiberali realmente esistenti in cerca di qualche ethnos democratico sepolto.
Ci arriveremo rafforzando lo stato di diritto, insistendo per elezioni libere ed eque, e puntando sulla vitalità e autonomia della società civile.
Jasmin Mujanović
(The American Interest, 02.05.2017)
https://www.the-american-interest.com/2017/05/02/in-the-balkans-an-old-idea-whose-time-has-passed/
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