Chi ha paura di Novak Djokovic?

Ops, il Corriere della Sera lo ha fatto di nuovo. A poco più di un anno dalla campagna di denigrazione a mezzo stampa a seguito della revoca del permesso a gareggiare agli Australian Open 2022, ieri sulla copertina della rivista settimanale del primo quotidiano d’Italia campeggiava il volto del campione serbo con un titolo alquanto gratificante: “Novak Djokovic – Destinato a essere il più cattivo”.

In tempi di guerra (e di relativa propaganda) le parole sono armi, armi di normalizzazione di massa. E Djokovic normale di certo non è. La straordinaria vittoria agli AO2023 è stata uno schiaffo per tutti quelli che avevano goduto della sua esclusione l’anno scorso, denigrandolo a un furbastro, uno scorretto, un arrogante e tanti altri epiteti trascurabili. No, il trionfo di Melbourne, le lacrime disteso in mezzo ai familiari, le toccanti parole del suo discorso “mi rivolgo a ogni bambino, cercate finquando non troverete chi crederà ai vostri sogni”, no, tutto questo non poteva essere raccontato epicamente come “il ritorno dell’eroe”.

Ergo, Marco Imarisio si è preso la briga di presentarlo quasi come un personaggio demoniaco, “personaggio polarizzante, … bipolare”, che non sarà mai amato come Federer ma “detestato almeno quanto Lendl”, “perché sono vere tutte e due le cose, il suo bisogno evidente di essere amato, e la sua costante pulsione a fare in modo che ciò non avvenga, quasi fosse obbligato a seguire il richiamo di una identità che lo costringe all’isolamento, all’incomprensione. Un dissidente contro la propria volontà, l’alfiere di una minoranza che cerca costantemente il plauso della maggioranza. È una condizione paradossale che lo rende schiavo di se stesso, di una forza e di una debolezza derivanti entrambe dalle proprie radici”.

E ti pareva che non si arrivava alla caratterizzazione etnica, al suo essere serbo, al suo legittimo patriottismo e al suo puntare ancora oggi il dito contro le bombe del 1999, perché a differenza degli altri bambini serbi del 1999, Djokovic è l’unico che oggi può puntare il dito contro quelle bombe dall’alto di un successo planetario.

Eppure resta la domanda. Perché, in uno sport che dai tempi di Connors e McEnroe accetta sfuriate, insulti, atti isterici e pallettate addosso agli avversari, a Djokovic non si perdona nulla? Cosa lo rende effettivamente diverso e disturbante per i benpensanti, per le vedove inconsolabili dell’eleganza algida di Federer e dell’agonismo timido di Nadal?

Rivangare il vittimismo dei serbi aiuterebbe poco a capire, tanto meno nel caso di un personaggio non comune come Djokovic. Perché quello che inquieta del campione serbo non è neanche il suo essere serbo (ci sono tanti sportivi serbi di ottimo livello in giro per il mondo), e men che meno le sue stizze (basti pensare alle recenti intemperanze di Fognini, Tzitzipas, Kyrgios, Moutet e Andreev, Sonego e Nadal), ma proprio la sua eccezionalità.

Un bambino che scopre prestissimo la sua vocazione e a sei anni afferma che diventerà primo al mondo, un adolescente che dichiara che raggiungerà e batterà Federer e Nadal per farlo appena due mesi dopo, un uomo che ritorna in testa alla classifica mondiale ad un’età quando molti tennisti sono in fase calante: sono tratti di un individuo sicuramente eccezionale, sorretto da una forza di volontà inflessibile. Ed è questo, in un’epoca conformista e mediocre, che davvero fa paura.

La nostra è un’epoca in cui la massima aspirazione è il massimo conformismo, dove i ragazzi intelligenti sono destinati a un master che li renda più funzionali possibili al tardo capitalismo, dove gli individui eccezionali, dai talenti precoci e inusitati, spesso, inevitabilmente, dal carattere complicato e ipersensibile, vengono trattati con il Ritalin da bambini e da disadattati da grandi, in ogni caso destinati alla marginalità economica, e spesso anche sociale.

Viviamo in società impaurite, insicure e incerte, diciamo pure liquide e dalle identità fluide. La non-scelta di tutto prevale in tutto e nelle conversazioni civili si evita qualsiasi confronto acceso. Chi manifesta convinzioni forti viene visto con sospetto, considerato un fanatico o un esaltato. Ma è proprio questa ossessività che crea il genio, in politica come nell’arte, nello sport come nelle scelte di vita.

Al contrario, ogni studio, passione, interesse, finanche curiosità  deve piegarsi a essere adattabile alle richieste della società indistinta. E così il percorso di meditazione e consapevolezza coltivato da Djokovic frequentando guru ed esponenti religiosi viene visto come un indice di instabilità mentale, “astrusità parascientifiche in odore da new age” (sempre Imarisio), non come un esempio di forza e crescita interiore. Perché la meditazione che piace ai giornalisti mainstream non è quella che mette in discussione te stesso e canalizza le tue capacità, ma quella che ti fa semplicemente accettare il reale, magari con un sorrisetto di pacifica sottomissione: che, dopotutto, è il risultato cui ambiscono i giornalisti italici “accettare il reale, non capirlo”.

Eppure, appena una o due generazioni fa, le persone erano fortemente affascinate dal personaggio eminente, addirittura divisivo. Il secchione in classe era oggetto di dileggio, mentre il brillante spaccone che andava bene studiando mezz’ora era oggetto di ammirazione. Oggi no, il figlio secchione tranquillizza i genitori sin da piccolo, tutti certi che seguirà un bel percorso conformista e non rischierà di intraprendere vicoli ciechi per troppo ardire.

Appena uno o due generazioni fa c’era il Rock ‘n’ Roll e i cantanti di protesta, barbuti e capelloni che spesso diffondevano ideali, magari ingenui e superficiali, ma di certo capaci di contestare lo status quo. Oggi abbiamo imitatori patitati e inoffensivi del Rock come i Maneskin oppure i trapper, per i quali soldi e sesso sono gli obiettivi della vita, tanto quanto il manager in carriera incravattato e ben rasato.

Ci sovviene James Hillman: “Perché l’eccezionalità riesce sospetta? La respingiamo forse perché l’ispirazione ci fa paura, in quanto la consideriamo uno stato della mente individualistica e aristocratica, che privilegia la comunicazione con gli spiriti rispetto a quella con i pari? Ma una cultura che immagina l’ispirazione come una pulsione asociale non si aggrapperà sempre più e tenacemente a una mediocrità solo piatta?” (Il Codice dell’Anima, pag. 332, Adelphi)

Ecco allora che il punto di questo articolo non è difendere Djokovic, ma la sua eccezionalità, perché ogni sua vittoria o presa di posizione, proprio perché spesso indigesta al conformismo imperante sono, in realtà, un servizio alla società, che dai tempi remoti si affida agli eroi, ai personaggi eminenti e particolarmente dotati, per portare l’esplorazione dei limiti umani oltre i confini conosciuti. L’eroe non ha obblighi di coerenza, non è morale e non persuade con la razionalità: risponde alla chiamata del suo carattere diventando appunto egli stesso un’ispirazione per gli altri ad inseguire la loro personale eccezionalità, nei limiti dei loro talenti. Questo è davvero destabilizzante in un’epoca che ha fatto della stabilità sociale, di una vita confortevole e vuota, delle convenzioni rassicuranti, i totem verso cui tutti devono piegarsi.

Allora non è stata la vittoria agli Australian Open 2023, l’aver raggiunto i 22 titoli ATP Tour il successo più importante di Novak Djokovic, ma,  l’aver potuto, da vincitore ispirato dal suo genio, appellarsi ai bambini di tutto il mondo e spronarli a inseguire i loro sogni, a sognarli in grande, a nutrirli come fiori, e a cercare chi infine crederà in essi e li aiuterà a realizzarli.

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