“La politica di Washington nei Balcani non ha mai avuto molto senso”, poiché gli Stati Uniti “hanno voluto preservare l’unità di alcune nazioni, smontando le altre”: questo è ciò che il collaboratore per la politica internazionale presso Forbes, Doug Bandow, ha scritto per la versione online della nota rivista, pubblicando un articolo dal titolo “Svelando i rischi dell’intervento sbagliato in Kosovo: un nuovo accordo necessario per la Pace”.
“L’unico principio che ha spiegato le azioni di Washington è che i serbi perdono sempre. Con nuove minacce di guerra che si levano ora dal Kosovo e dalla Serbia, è il momento che Stati Uniti ed Europa adottino un approccio più imparziale”, sostiene Bandow.
Dopo aver esaminato il contesto storico, e il processo di disgregazione della ex Jugoslavia, (un paese, ha osservato, nato come una creazione artificiale nel 1918), l’autore sostiene che “mentre le atrocità serbe erano comuni e degne di nota, musulmani e croati non erano innocenti”.
«Ciononostante, Washington e Bruxelles ritenevano che le minoranze etniche serbe soffrissero in silenzio sotto altre maggioranze etniche, anche di fronte ad una pulizia etnica. Ad esempio, la Croazia, sostenuta da aiuti degli Stati Uniti, lanciò un’offensiva militare su larga scala contro i serbi della Krajina, causando la fuga di centinaia di migliaia di persone. Anni dopo ho visitato la regione: il paesaggio rurale era punteggiato di fattorie abbandonate e chiese ortodosse in rovina, mentre le facciate degli edifici urbani erano ancora segnati da fori di proiettile “.
“Tuttavia, Washington ha rifiutato di riconoscere, per non parlare di criticare, questo episodio di pulizia etnica senza scrupoli”, scrive Bandow.
Il Kosovo viene menzionato come “la prossima crisi balcanica”, e nella provincia meridionale della Serbia, descritta come “intimamente legata alla storia e alla cultura serba”, “la popolazione della regione si è spostata nel corso degli anni, con un afflusso di albanesi, e la creazione di una larga maggioranza.”
“Una rivolta scoppiò in risposta al dominio repressivo di Belgrado”, spiega l’autore, aggiungendo che i funzionari degli Stati Uniti “originariamente denunciarono la guerriglia come ‘terrorista’, ma gli albanesi controllavano i media”.
“Nell’estate del 1998 ho incontrato il braccio destro del leader dell’opposizione locale, Ibrahim Rugova, che più tardi divenne il primo presidente del Kosovo. Mi rivelò che gli albanesi avevano bisogno di un intervento militare occidentale, e questo richiedeva che il conflitto andasse sulla CNN. Da qui, le discutibili dichiarazioni di atrocità, insieme ad una brutale campagna contro-insurrezione che ha ucciso i civili, così come combattenti”, scrive Bandow.
Secondo Bandow, se, al giorno d’oggi, dopo la guerra in Kosovo, i bombardamenti della NATO sulla Serbia, e la dichiarazione unilaterale di indipendenza, l’etnia di maggioranza albanese a sud del fiume Ibar ha “il diritto di scegliere l’indipendenza”, allora anche la maggioranza etnica serba a nord del fiume Ibar “dovrebbe essere libera di scegliere di non lasciare la Serbia”.
“Questo principio crea un potenziale accordo che garantirebbe la giustizia così come la stabilità. La Serbia riconosce l’indipendenza del Kosovo e il Kosovo accetta la separazione della zona nord abitata in prevalenza dalla popolazione serba”.
“Nessuno si aspetta davvero un’altra guerra balcanica”, sostiene l’autore in conclusione del suo articolo: “Tuttavia, l’ingiustizia continuamente inflitta all’etnia serba nel Kosovo settentrionale crea inutile instabilità e il rischio di conflitto. Un altro giro di negoziati è necessario, ma uno in cui gli Stati Uniti e l’Europa non manipolino il risultato in favore di Pristina. L’unica soluzione sicura sarà quella che garantirà vantaggi sia per gli albanesi che per i serbi del Kosovo”.
(b92, 06.03.2017)
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