A Belgrado, presso la galleria Bartcelona, dal 9 fino al 20 maggio, Francesco Marchetti propone il suo progetto fotografico intitolato “The art of spectating”.
Nel suo classico studio “On Photography”, Susan Sontag ci ricordava che “insegnandoci un nuovo codice visuale, le fotografie alterano e allargano le nostre nozioni su cosa merita di essere guardato e su cosa abbiamo diritto di osservare. Esse sono una grammatica e, cosa ancora più importante, esse sono un’etica dello sguardo. Infine, il risultato più grandioso dell’intrapresa fotografica è quello di darci l’impressione che possiamo portare l’intero mondo nella nostra testa, sotto la forma di un’antologia di immagini”.
Una forma di antologia di immagini ed espressioni è per eccellenza il museo, addensato di significati che sollecita costantemente i sensi del visitatore. Per questo ogni visita in un museo richiede uno sguardo disciplinato a cogliere le opere nella loro canonicità, come anche particolari e nuove prospettive. Nel microcosmo del museo possiamo scoprire ulteriori microcosmi, prodotti anche dall’interazione tra opere e visitatori: un volto incrociato di sfuggita ci fa sovvenire l’impressione di un quadro, i casuali intrecci tra corpi, statue e opere diventano occasione di osservazione e riflessione, un commento alle nostre spalle ci può far ridere o far cogliere il senso profondo di un’opera.
Non a caso il percorso di esplorazione fotografica al Victoria & Albert Museum, portato avanti nel corso di un triennio da Francesco Marchetti e proposto alla galleria Bartcelona di Belgrado (Belgrade Design District, primo piano, lokal 96, accesso da via Nusiceva) dal 9 fino al 20 maggio, si intitola “The art of spectating”, l’arte dell’osservare, che in italiano non è solo verbo dei sensi, ma anche del giudizio. Francesco Marchetti però non propone tesi precostituite, ma lavora per cogliere accostamenti di figure che, nella loro casualità, offrono una chiave di lettura nuova delle opere museificate, oppure, semplicemente, colgono simmetrie tra umano e inanimato che riorganizzano lo spazio visivo e le nostre idee.
Come nasce questo progetto in particolare, e quanto di street photography c’è in un contesto museale?
“The art of spectating” nasce dall’osservazione di comportamenti e reazioni alternative delle persone nel contesto del museo: mi interessa il dialogo intimo che viene ad instaurarsi tra una persona e l’opera d’arte che sta osservando, e trovo che sia un dialogo che in realtà ha la possibilità di verificarsi raramente: quando vedo gruppi di persone in visita al museo solitamente l’atteggiamento è dispersivo e superficiale, sembra che la gente non contempli più davvero l’arte, e che l’instaurazione di un legame intimo con essa sia diventato più un discorso residuale ormai. Non amo particolarmente l’espressione street photography. Preferisco qualificare un progetto per il concetto che esprime, non tanto per lo stile.
Quello del museo è uno spazio riflessivo, in cui il dialogo con l’arte può diventare dialogo interiore perché il tempo scorre ad una velocità diversa, soprattutto in una città frenetica come Londra. Prendo le distanze da quel comportamento riflessivo e da quel flusso di comunicazione intimo che viene a scaturire dalla contemplazione dell’opera d’arte e divento osservatore di chi osserva. E’ importante la familiarità con l’ambiente e la conoscenza dettagliata delle diverse sculture per poter anticipare eventuali situazioni che potrebbero avvenire tra la persona e l’arte.
L’occasione di esporre, ora, mi da’ anche l’opportunità di rendere vive le fotografie e avere un riscontro rispetto a quello che sto facendo, questo porta me a crescere insieme al progetto, che a sua volta si evolve nel corso degli anni.
Questa è la tua prima mostra personale. Come mai a Belgrado?
Con Belgrado ho una relazione personale, la frequento dal 2003 e l’anno scorso ho partecipato al Belgrade Photo Month, che rappresenta una grande e lodevole iniziativa capace di aumentare la visibilità della città a livello europeo, e grazie a quella partecipazione ho avuto la possibilità di entrare in contatto con altri fotografi e direttori artistici che hanno dimostrato interesse nel momento in cui gli ho mostrato il mio progetto, da cui è maturata l’idea di un’esibizione qui. Ed era anche interessante mostrare qualcosa di diverso, un progetto realizzato in un’altra città. Avrei potuto presentare materiale dalla Serbia, ma ho preferito presentare un progetto che forse si prospetta più originale per le persone che frequentano gli ambienti fotografici belgradesi. Al momento è qualcosa che è stato visto poco.
Dunque hai anche del materiale sulla Serbia, e quali sono i tuoi progetti futuri?
Mi interessa sviluppare un progetto a lungo termine sulla Serbia rurale e sull’attività degli artigiani locali e sul loro legame con l’eredità ottomana, e nel frattempo sono aperto a collaborazioni con organizzazioni no-profit. Lo scorso anno ho avuto la possibilità di lavorare ad un progetto nel contesto del sistema sanitario inglese, documentando alcune attività organizzate in ospedali psichiatrici in Uganda e ancora prima nel 2015 ho lavorato a Belgrado con il Miksalište, nel periodo di maggiore affluenza dei migranti nella stazione, documentando l’operato del centro di accoglienza. Si tratta di progetti che mi hanno insegnato come rispettare la dignità delle persone fotografate e quali siano gli aspetti da raccontare in relazione a certi temi, e molto sul posizionamento del fotografo e sull’etica. Bisogna anche porsi dei limiti e dei confini, non lasciarsi risucchiare dalla tentazione di entrare in quello che in certi momenti può diventare un circo mediatico che non considera adeguatamente la dignità della persona.
Nel momento in cui hai sviluppato più sistematicamente la tua passione per la fotografia, quali sono stati i tuoi punti di riferimento, le tue fonti di ispirazione?
In generale la fotografia documentaristica, c’è molto materiale in giro ed è difficile valutare il livello e la serietà di questi lavori, quindi i miei punti di riferimento sono agenzie rinomate e conosciute come la Magnum, e altri fotografi indipendenti che sono per lo più foto-giornalisti e documentaristi.
Cosa pensi delle tendenze in atto nel campo del foto-giornalismo e come si colloca la tua fotografia, sottilmente intrisa di suggestioni intimiste, nel contesto di un settore che talvolta spinge piuttosto al sensazionalismo?
Non subisco questo tipo di condizionamento in questo momento, perché sono intenzionato a seguire un discorso più personale e non sento ad esempio di dovermi dedicare ad un tema solo perché va per la maggiore. Anzi, forse proprio perché principalmente trattato al momento, sono portato a chiedermi se sono in grado di trattare quel determinato argomento in maniera originale e se la risposta non è positiva preferisco trovare un progetto che sia più personale. Per me è importante il senso dell’umorismo, osservo cose che appartengono alla realtà di tutti i giorni, apparentemente e semplicemente ordinarie, ma mi incuriosisce la gamma dei comportamenti umani e delle reazioni emotive, e dunque la semplice osservazione della vita di tutti giorni può ispirare un tema.
Dalle tue foto traspare una spiccata sensibilità estetica. Come raggiungi un equilibrio tra l’intento di raccontare e la ricerca formale?
Documentazione ed estetica si sviluppano in accordo, l’accordo tra il contenuto e la forma. Estetica e creatività rivestono un ruolo importante nella misura in cui non vengono portate all’estremo dell’alterazione, io non uso manipolare le mie immagini: la fotografia deve anche essere piacevole da guardare all’interno di una storia. Nel contesto di questo progetto ad esempio, fotografo situazioni che io ritengo siano piacevoli da vedere, o ironiche, quindi non sceglierei di fotografare una situazione o una persona per ottenere un effetto di ridicolizzazione, anzi, vorrei che le persone fotografate, rivedendosi nelle mie immagini, ne traessero godimento, senza sentire che la loro privacy è stata invasa.
Originario di Mestre-Venezia, Francesco Marchetti vive a Londra dal 2000, dove ha maturato la passione per la fotografia che lo ha spinto a partecipare a numerosi corsi di formazione, compreso un corso professionale sul reportage presso il Central Saint Martin’s University of Art London (UAL).
Dal 2013 ha ricevuto numerosi meriti internazionali e ha preso parte a mostre collettive a Londra. “The art of spectating” è la sua prima mostra individuale a Belgrado. Accanto a progetti fotografici personali, ha collaborato con organizzazioni no-profit a Belgrado, Londra e in Africa.
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